Didone ed Enea di Purcell e I Sette peccati capitali di Weill-Brecht
Sulla coscienza della civiltà romana, sul mito della fondazione stessa di Roma, grava sinistramente un suicidio. Nell’abbandono di Didone da parte di Enea, uomo “giusto” per eccellenza che tuttavia ha saputo essere “sleale”, come grida la regina di Cartagine prima di uccidersi, non è forse simboleggiata l’incompatibilità tra Amore e Potere, tra rettitudine e ragion di stato, di cui la volontà divina è ingiusta promotrice? Senza un capro espiatorio le generazioni umane e la storia, tutt’altro che “giusta”, non possono forse procedere.
Sembra dirci anche questo l’amore infelice cantato dai primi quattro libri dell’Eneide, che pure è la più alta celebrazione della Roma imperiale, e a modo suo anche la versione di Henry Purcell, massimo esponente del teatro musicale britannico, e del librettista Nahum Tate, che nel Dido and Aeneas si ispirano con significative variazioni al quarto libro del poema virgiliano. L’opera, in un curioso dittico con I Sette peccati capitali di Weill-Brecht, è frutto di una coproduzione del Comunale di Bologna con I Teatri di Reggio Emilia e la Fondazione Haydn di Bolzano e Trento, Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna diretti da Marco Angius, con la regia di Daniele Abbado.

Il profugo afflitto, l’esule sbattuto dai venti sui lidi africani, eroe positivo per eccellenza, è anche l’ubbidiente strumento di un dio tirannico, allegoria della violenza del potere e della storia. In verità il librettista Tate non seppe trattenersi dal volgarizzare la purezza del testo virgiliano con invenzioni stregonesche di sapore nordico e preromantico, che attribuiscono la partenza di Enea, anziché alla volontà divina, a una macchinazione di streghe, degradando il mito classico in fiaba medievaleggiante. Eppure il «genio inconfondibile» di Purcell – per quanto non sufficiente, secondo Adorno, a confutare l’argomento secondo cui «la forza dei popoli anglosassoni almeno nella musica composita non è da secoli all’altezza di quella degli altri popoli» – produce una intensità drammatica così contagiosa sugli spettatori di più di trecento anni dopo, così tipicamente sua nell’esprimere un senso di solennità regale e di commossa umanità, da rendere il pubblico fortemente partecipe della immedicabile, nobilissima melanconia che pervade la possente architettura musicale, e della sublime e rabbiosa mestizia di Didone, a cui la soprano australiana di origine cingalese Danielle de Niese conferisce credibile varietà di tortuosi conflitti interiori: il presagio timoroso, l’alta passione, il delirio del dolore e dell’offesa inguaribili.
Il ritratto di Purcell dipinto l’anno della morte da John Closterman, oggi alla National Portrait Gallery di Londra, ci presenta il volto di un uomo energico e volitivo, sanguigno più che malinconico: un esponente di spicco degli intellettuali approdati alla Corte del Re, non certo un membro della sfortunata accolita degli adepti di Saturno. Eppure il suo Dido and Aeneas è così imbevuto di dolore, di sconforto e di pulsioni di morte, così insistente nel lungo rito sacrificale finale di autodistruzione, dove trovano spazio parole umanissime sul mistero del più innaturale dei gesti, che è difficile pensare che Tate e Purcell vi si siano abbandonati solo per la potentissima teatralità della situazione. Vi spiccano espressioni di profonda tenerezza, non presenti nel pur ineguagliabile modello virgiliano, come la richiesta a Belinda, sorella e confidente della regina – una convincente Patricia Daniela Fodor, soprano italiana di origini romene – di poterle appoggiare la testa sul petto prima del trapasso. Trapela qui una concezione della solidarietà come “farmaco” dell’infelicità, non ancora però sufficiente a far desistere dall’alzare la mano su di sé, come accadrà più di cento anni dopo nell’altissima riflessione di Leopardi sul suicidio, che nel “Dialogo di Plotino e di Porfirio” individua proprio nell’amicale darsi «mano e soccorso scambievolmente» il fondamento solidaristico della tesi che nega legittimità all’uccisione di se stessi.
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I sette peccati capitali (Die sieben Todsünden), secondo capitolo del dittico, ci dicono che Kurt Weill e Bertolt Brecht sono una coppia invecchiata bene e che Danielle De Niese ha saputo compiere in scioltezza la acrobatica metamorfosi da inflessibile e appassionata regina di Cartagine a donnicciola prudente e previdente, portavoce delle “virtù” piccolo-borghesi dell’egoismo, dell’ipocrisia, dell’adesione furbesca allo stato delle cose. Insomma, da Didone ad Anna I, uno dei due personaggi in cui si scinde la protagonista dell’unico balletto scritto da Brecht e ultima sua collaborazione con Weill, andato in scena a Parigi nel 1933, all’inizio dell’esilio e della lunga fuga dal nazismo.

La trovata dello sdoppiamento del protagonista non resterà isolata nell’opera teatrale di Brecht, e troverà espressione in due drammi della maturità come L’anima buona del Sezuan e Il Signor Puntila e il suo servo Matti. È un suo motivo centrale quello della frattura dell’io causata dalla società e non, come nel teatro cosiddetto borghese, da ragioni soggettivistiche e psicologiche. L’iniziazione alla società capitalistica, attraverso il viaggio americano di Anna in sette metropoli alla ricerca del “sogno” di prosperità, è resa possibile proprio dalla schizofrenia tra Anna I (cantante) e Anna II (danzatrice), tra ragione e passione, che permettono di rovesciare il senso dei sette peccati capitali e di vendere sé stessi, come esige il capitalismo.
La prima collaborazione con Weill aveva fruttato a Brecht l’unico vero successo commerciale della sua carriera con L’opera da tre soldi. Era il tentativo di creare un’anti-opera, in cui la musica non servisse più a spingere sul pedale del sentimento, coprendo il contenuto. In un “balletto satirico”, in cui la musica, il canto e anche la danza sono elementi dominanti, il tentativo è ancora più arduo, e gli applausi scroscianti del pubblico al termine dello spettacolo potrebbero forse spingere un brechtiano ortodosso a nutrire maligne perplessità. Ma i brechtiani ortodossi sono oggi più rari dei melanconici dichiarati, e data ormai dall’inizio degli anni Ottanta la campagna mediatica dedita a distruggere con spregiudicato livore la reputazione biografica e artistica di Brecht.
Eppure la vitalità della sua fantasia unita all’estro di Weill creano una curiosa tragedia buffa, cui fa da comico evidenziatore la mostruosa famigliola di Anna, attivissima nel promuovere, con un prontuario di educazione alla meschinità e alla falsità, la discesa della ragazza all’inferno. Un inferno che, vecchio di cent’anni e coi godibili sapori vintage di un cabaret felicemente orchestrato, sembra perfino vivibile col senno di poi, dopo le magnifiche sorti e progressive del secolo breve e del primo aureo quarto del secolo ventunesimo.
Olindo Rampin
Dido and Aeneas – I Sette peccati capitali
visto al Teatro Valli di Reggio Emilia

Un pensiero riguardo “Il dramma di Didone e la tragedia buffa di Brecht”