Modena – In principio, a sipario chiuso, il pubblico viene dolcemente depistato. Come interpretare altrimenti questo prologo, non raciniano, che allude a seduzioni da teatro di rivista, in cui la stessa Elena Ghiaurov, che di lì a poco compiangeremo, delirante d’amore e di vergogna tra affanni e lamenti, canta invece accompagnata da due soubrettes agitanti vaporosi ventagli di piume bianche?
Ad apertura di sipario, però, tutto cambia. La scena della Fedra di Racine diretta da Federico Tiezzi, nuova produzione di ERT / Teatro Nazionale con Fondazione Teatri di Pistoia e Compagnia Lombardi-Tiezzi, ci appare nel fondale dominata, visivamente e semanticamente, dall’ Atalanta e Ippomene di Guido Reni, a grandezza naturale, con quell’ «anelito a estasiarsi», al «desiderio acutissimo di una bellezza antica, ma che racchiuda un’anima cristiana», che Roberto Longhi ravvisò nel pittore bolognese seicentesco, e che sembra intonarsi all’ispirazione greca, pagano-euripidea, che «racchiude» il giansenismo del tragediografo francese, l’amico-nemico degli “Amici di Port-Royal”, per i quali Dio è muto, «Absconditus» ovvero nascosto. Certo non sembra un caso che Atalanta, giovane cacciatrice renitente ai richiami di Venere, oggetto della vendetta della Dea dell’amore che con l’inganno aiuta Ippomene a vincerla nella corsa per impalmarla e possederla, sia in certo senso una versione femminile di Ippolito, il giovane orgoglioso e freddo nei confronti della passione amorosa, verso il quale si volge l’inappagabile desiderio incestuoso della matrigna Fedra, e che, interpretato da Alberto Boubakar Malanchino, esprime la sua identità doppia e sfuggente anche nei costumi, indossando prima un abito nero glitterato dal design clownesco ma con gorgiera barocca d’ordinanza, poi una più timorata palandrana orientaleggiante coniugata però con la lorica musculata, la corazza metallica pettorale-addominale indossata dagli ufficiali dell’esercito romano.

Siamo dunque in una camera/pinacoteca, e una pinacoteca era anche la scena in cui, con aderenza al testo, Federico Tiezzi aveva ambientato qualche anno fa Antichi Maestri di Thomas Bernhard. Qui però ecco il solo enorme quadro di Reni, quattro busti scultorei identici agli angoli, e un triclinio marmoreo. La prima formazione storico-artistica di Tiezzi è nota, ma la contiguità scenica è qui forse anche contiguità d’anime, percezione in noi di un’aria di famiglia: non appartiene anche Thomas Bernhard, quattro secoli dopo Racine e con temi e linguaggi certo imparagonabili, alla “cerchia” plurisecolare degli amareggiati descrittori dell’ipocrisia del Mondo, degli scontrosi propugnatori di una visione tragica della vita?
Quella di Racine è infatti una precisa «vision du monde» che, come argomentò più di mezzo secolo fa con memorabile lucidità Lucien Goldmann, e come ci sembra emergere nella versione di Tiezzi, oppone il «Mondo» – i cui personaggi, da Ippolito a Teseo, da Aricia a Enone (Martino D’Amico, Marina Occhionero e Bruna Rossi, tutti all’altezza del compito, come Massimo Verdastro/Teramene e Valentina Elia/Ismene), hanno in comune l’inautenticità, la mancanza di coscienza e di umana grandezza – al personaggio tragico, la cui diversità, ciò che lo rende incomprensibile e non integrabile, è l’importanza che ha per lui (o meglio per lei) la passione come aspetto della sua umanità. Fedra, diversamente dalle sue sorelle in ispirito Andromaca e Berenice, invece di rifiutarlo subito, si illude tuttavia di poter vivere “nel mondo” imponendo a questo le proprie leggi, senza scegliere né abbandonare nulla. Questa terribile illusione è all’origine della eccezionalità della sua catastrofe, oltre che della superiorità di questa sulle altre tragedie raciniane.
«I buoni e i magnanimi, come diversi dalla generalità, sono tenuti dalla medesima creature d’altra specie, e conseguentemente non sono avuti per consorti né per compagni, ma stimati non partecipi dei diritti sociali, e, come sempre si vede perseguitati tanto più o meno gravemente, quanto la bassezza d’animo e la malvagità del tempo e del popolo nel quale si abbattono a vivere, sono più o meno insigni». Benché la filosofia materialistica di Leopardi non sia accostabile al giansenismo raciniano, queste parole, citate per esteso per il loro crudele nitore, scritte da Giacomo Leopardi nei “Pensieri”, hanno nella verità “altra” della creazione artistica una strana, fraterna risonanza con la natura profonda del disastro esistenziale di Fedra, che ci sembra appartenere di fatto e di diritto alle “creature d’altra specie” di una visione gnostica, che, continua Leopardi, e sembra che descriva la figlia di Minosse e Pasifae, «chiamano le cose coi loro nomi», infrangendo così il principio della discordanza tra «parole» e «cose» che è uno dei tratti distintivi della sovranità dell’impostura che governa il «mondo».

Il ruolo di Fedra è un vertice assoluto per la carriera di un’attrice teatrale, ancor più, immaginiamo, nel paese del suo creatore. Ne resta traccia nel memorabile racconto della spasmodica attesa dell’io narrante, nella Recherche proustiana, per l’interpretazione che della figlia di Minosse e di Pasifae avrebbe offerto l’attrice più celebre dell’epoca, la Berma. Grande fu la delusione dell’autore che ne seguì, a causa della dizione fredda e compassata della diva francese. Un secolo dopo il pubblico dello Storchi è invece travolto, con un grado di empatia che si è tradotta in applausi a scena aperta, dalla temperatura altissima dell’interpretazione appassionata, rabbiosa, piena di conflitti intrapsichici, di illusioni e cocenti amarezze, che ne dà Elena Ghiaurov, che, la chioma corta e bionda non può non ricordarci quella di Mariangela Melato, cede ripetutamente – e così in effetti nel testo raciniano – in plurime cadute e deliquii, diversamente vissuti, accennati e trattenuti, sulle ginocchia, a tutto corpo, lenti, di schianto, a corpo morto.

Il mondo mitico e tragico è inattingibile per l’uomo contemporaneo. Una passione travolgente che aspiri alla totalità, come quella di Fedra, è da tempo antropologicamente impossibile. Il tragico ha da tempo ceduto alle varie epoche della modernità, al capitalismo trionfante, alla società dello spettacolo, all’industria culturale, alle subculture conseguenti, così influenti sull’immaginazione creativa del teatro dell’ultimo mezzo secolo, che per certi aspetti, anzi, ci sembrano ora quasi un rassicurante benché prevedibile dejà vu. Dopo lo spettacolo, italicamente approdati in pizzeria, ci è stata servita una bottiglia di birra di un produttore locale dal nome “Labeerinto – Minosse”. La legittima critica del razionalismo e l’adesione di una sera alla “vision du monde” di Racine non può indurci se non a prenderne atto con un sorriso, non attribuendo alcun significato misterioso o freudiano a questa coincidenza. Né diremo, celiando grossolanamente, che il padre di Fedra, imbottigliato da un birrificio artigianale emiliano, ha fatto, a ben vedere, una fine meno tragica, ma forse più ignobile di sua figlia.
Olindo Rampin
FEDRA
di Jean Racine
traduzione di Giovanni Raboni
regia Federico Tiezzi
con Martino D’Amico, Valentina Elia, Elena Ghiaurov, Alberto Boubakar Malanchino, Marina Occhionero,
Bruna Rossi, Massimo Verdastro
scena Franco Raggi, Gregorio Zurla e Federico Tiezzi
costumi Giovanna Buzzi
luci Gianni Pollini
canto Francesca Della Monica
movimenti coreografici Cristiana Morganti
regista assistente Giovanni Scandella
costumista assistente Lisa Rufini
scenografa assistente Erika Baffico
produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Fondazione Teatri di Pistoia, Compagnia Lombardi-Tiezzi
visto al Teatro Storchi di Modena
