Bologna – “Conosci te stesso”. Con questa massima socratica, incisa sul frontone del tempio di Apollo in Delfi, il dio delle arti figurative esortava gli uomini al riconoscimento della loro condizione e della loro limitatezza.

Nel mito tragico per eccellenza, Edipo neonato viene bandito dai genitori perché una divinazione, che per i Greci era verità infallibile, aveva vaticinato il parricidio per sua mano. Come sempre, e come è tecnicamente inconcepibile per i moderni, per i greci antichi gli dei e la sorte, la tyche, sovrastano l’uomo, che non può nulla per mutare il destino scritto dalla divinità. La narrazione edipica è un esempio, uno dei tanti, di questa verità. Sofocle con la forza della poesia lo svela ai suoi contemporanei greci, che lo sapevano in realtà anche prima. Ora, diversamente da quel può apparire, non è forse proprio la volontà di conoscere “troppo” sé stesso che conduce l’infelice eroe greco alla scoperta di una verità insopportabile per la mente umana? Una verità che porterà la moglie-madre al suicidio e lui stesso a cavarsi gli occhi: cecità che a noi pare il contrappasso coerente per chi ha voluto vedere troppo, non per chi non voleva vedere.  Non è forse vero che dopo che Tiresia gli aveva rivelato la sua vera identità, Edipo comincia ad essere preso da un desiderio “apollineo” di verifica, di analisi, di accertamento della verità, che non può che perderlo? La moglie-madre glielo aveva detto chiaramente: non voler sapere chi sei. “Conosci te stesso” non vuol dire indaga senza posa, ma riconosci i tuoi limiti di uomo.

foto di Alessandro Serra

Questa sconcertante ma vitale contraddizione del pensiero greco ci pungeva come domanda latente mentre assistevamo alla prima di Tragùdia. Il canto di Edipo, riscrittura di testi sofoclei e del mito firmata da Alessandro Serra, che ne ha curato tutti gli aspetti, dalla regia alle luci, dai suoni alla scenografia ai costumi. Serra vi esalta gli aspetti eminentemente rituali, magici, della tragedia greca. Lo fa sottraendo quel tanto di letterario e di “apollineo”, nel senso di equilibrato e razionale, con cui la lingua greca di Sofocle o una traduzione in lingua italiana potevano “imborghesire” la temperatura scenica. Sceglie così il grecanico, lingua ancestrale e certo non eufonica nel senso corrente del termine, parlata da una sparuta comunità in Calabria. Ne ottiene un effetto non dissimile da quello che aveva raggiunto con la lingua sarda nella sua precedente riscrittura del Macbeth shakespeariano: una sorta di regressione linguistico-culturale, di ritorno a un tempo a-storico o pre-storico, il tempo del mito e dell’età magica, appunto.

A questo raggiungimento concorre la creazione di una serrata, inesausta composizione di immagini epifaniche e perturbanti, di movimenti ripetuti e danze circolari, di canti sacri, di vocalizzi umano-animali e di urla di orrore, di costumi arcaici, di palandrane monacali bianche in un universo cromatico dominato dalla prevalenza di un funebre nero. E poi ancora: di luci spietate e coerenti più di una sintassi verbale, di sonorità sospese e inquiete, di aperture e metamorfosi improvvise della scabra scenografia, fatta di tre pannelli polifunzionali ma non meno evocatori di sacralità di quanto possa esserlo un colonnato dorico. La composizione di tutti questi materiali converge, con una incalzante prepotenza, verso una concezione tutta corporea e creaturale della vita. È Dioniso, il dio dell’ebbrezza e della musica, non Apollo, dio delle arti figurative e dell’equilibrio, a vincere. È una dimensione prelogica e prerazionale dell’esistenza e dei rapporti umani, quella che ci viene incontro colpendo i nostri sensi con una micidiale strategia: visiva, vocale e sonora. Non solo, perché il primo segno dello spettacolo è olfattivo: un odore di incenso che, a luci di sala ancora accese e con il pubblico non ancora sistemato, colpisce le narici.

foto di Alessandro Serra

Mentre ci si chiede se sia un’impressione o se qualcuno tra i vicini di sedia possa essersi follemente profumato di incenso, ogni dubbio viene sciolto quando da dietro la scenografia si vedono salire spirali di fumo. Poi ecco appare un incensiere, ondeggiato dalla graticcia. Era dai tempi della frequentazione, da bambino, della messa domenicale, che non vedevo un incensiere, mentre dal turibolo esce un fumo sempre più denso, e riconosco che è molto più ieratica questa liturgia serriana di quella, amorfa, officiata dal panciuto parroco della mia brevissima, infantile iniziazione cattolica.

Qui gli officianti sono sette, attrici e attori che corrispondono ad altrettante apparizioni figurali, concrete e simboliche: Alessandro Burzotta, Salvatore Drago, Francesca Gabucci, Sara Giannelli, Jared McNeill, Chiara Michelini, Felice Montervino. Sette figure, sette corpi tesi e vibratili, uniti da una lingua e da un destino, entrambi arcaici e mitici: abbiano crani lucidi e stivali neri altissimi, sardeggianti; o volti bruni e occhi magnogreci, o siano filiformi e androgini, i seni piccoli e tesi sotto una tunica nera nell’indovino Tiresia claudicante su bastoni di diversa lunghezza. I suoi inconfutabili vaticinii terminano con vocalismi di uccello, massimamente angoscianti. Edipo vi si oppone, accecato dalla sua stessa esuberanza e vitalità. Già nella scena iniziale avevamo percepito la latitudine della sua presenza e ci aveva ricordato nel volto e nella gestione del corpo certi memorabili attori afrodiscendenti di Peter Brook. Così non siamo sorpresi quando vediamo che nella biografia di Jared McNeill c’è un’esperienza vissuta al brookiano Théâtre des Bouffes du Nord.

foto di Alessandro Serra

Il fatto è che ad Alessandro Serra non pare che il destino di Edipo sia quello del più infelice degli uomini. Non vede in lui solo chi ha scoperto la putredine della sua vita incestuosa, e da eroe che vince sfingi, scioglie enigmi e regge città è divenuto un reietto, un cieco mendicante, un nomade senza patria. Alla esteriore cecità corrisponde forse un occhio interiore più acuto di quello dionisiaco ed ebbro di quando si accoppiava con la madre, generando figli che erano al tempo stesso suoi fratelli. Nella sua notte c’è un bagliore, nella sua povertà c’è una autenticità, gli dei forse non sono più con lui gli dei della vendetta e del rancore. E anche questa trasformazione è concettualmente e visivamente coerente con la cifra ritualeggiante, spiritualeggiante e antimaterialistica dell’Edipo grecanico di Serra.

Olindo Rampin



TRAGÙDIA Il canto di Edipo

di Alessandro Serra
liberamente ispirato alle opere di Sofocle e ai racconti del mito

traduzione in lingua grecanica Salvino Nucera

con Alessandro Burzotta, Salvatore Drago, Francesca Gabucci, Sara Giannelli, Jared McNeill, Chiara Michelini, Felice Montervino

regia, scene, luci, suoni, costumi Alessandro Serra

voci e canti Bruno de Franceschi

produzione Sardegna Teatro, Teatro Bellini, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale , Fondazione Teatro Due Parma

in collaborazione con Compagnia Teatropersona, I Teatri di Reggio Emilia

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Visto all’Arena del Sole di Bologna il 20 ottobre 2024

foto di Alessandro Serra

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