OLINDO RAMPIN – Sarà difficile che la memoria, quella particolare memoria visiva e sonora che distingue l’esperienza dello spettatore teatrale, si liberi della scena conclusiva del Giardino dei ciliegi diretto da Leonardo Lidi, terzo “quadro” della trilogia čechoviana prodotta dal Teatro Stabile dell’Umbria con lo Stabile di Torino e il Festival di Spoleto.
Firs, il vecchio e fedele servitore che, rimasto solo dopo la partenza dei padroni, chiude la tenuta destinata ad essere lottizzata con il giardino per un progetto di over-tourism avanti lettera, è probabilmente il personaggio meno significativo dell’opera. È un merito particolare di Tino Rossi, l’attore che lo interpreta, in smoking, costretto in sedia a rotelle, aver saputo dire la battuta finale “La vita è passata. E’ come se non l’avessi vissuta”, con una amara ed esatta credibilità capace di gettare una luce speciale sul valore simbolico di questa conclusione e di questo personaggio, solo apparentemente secondario.

In Firs convergono, come in un estratto ottenuto per sintesi chimica, un insieme di interessi e di tendenze dell’arte di Cechov: tendenze che trovano espressione nell’”atmosfera”, per usare un čechovismo, di questa lettura di Lidi. Firs è infatti uno dei tanti nevrotici fuori dalla storia creati dal medico e scrittore Čechov, il cui disturbo consiste in un blocco dello sviluppo della personalità, in un mancato svolgimento del progetto di vita. Il maggiore esponente teatrale di questo popolo di alienati è Zio Vanja, che ripete continuamente che “non ha vissuto”.
Ma non è forse vero che l’arte di Čechov è, anche, un repertorio di morbilità psichiche? Si pensi, nei capolavori narrativi, ai casi clinici più gravi, ai protagonisti di Reparto n. 6, del Monaco nero, de L’uomo nell’astuccio, ma si potrebbero fare molti esempi, o alla desolata e tarda comprensione di avere vissuto senza cogliere un significato nella vita, come accade al vecchio professore di Una storia noiosa o al protagonista di La mia vita; o alle tante forme di umor nero, di nevrosi depressiva, che, passando al teatro, affliggono il protagonista di Ivanov, e combinato a una insicurezza e mancanza di autostima da manuale, il suicida Trepljov del Gabbiano?

Non ci eravamo resi conto forse che questa estrema opera di Čechov, che muore nel 1904 prima di poterne vedere il debutto, più che un Giardino dei ciliegi è un Giardino degli eterni bambini, dei disadattati, degli sfasati. Non è forse un circolo dei lunatici quello che vediamo fantasticare, rimpiangere, chiedere prestiti, fare affari, ballare, vestiti di tute di acetato anni ’90, con i capelli in disordine, le barbe mal fatte, le barbone e gli stomaci da orso buono, i jeans sporchi e la giacca lurida? Solo il mercante Lopachin, il contabile Epichodov sono vestiti di anonimi abiti impiegatizi. ll soffitto, puntellato di neon ospedalieri, fatto ruotare su sé stesso, è anche plancia-spiaggia o bordo piscina con bagnanti kitsch, le pareti sono teli di polipropilene, immenso sacco per l’immondizia che si dispiega a coprire gli ex possidenti russi divenuti diseredati.
Eppure, Čechov c’è tutto, quasi alla lettera, con le sue frasi inimitabili, con i suoi silenzi, con la sua tristezza che lui diceva fosse allegria, la sua tragedia che lui diceva essere commedia. Solo che i suoi falliti, i suoi borbottoni, le sue sorelle deluse, gli zii e le zie che Majakovskij e i poeti della rivoluzione non sopportavano più, i suoi utopisti chiacchieroni, i suoi rassegnati, i suoi amareggiati e disincantati, sono diventati, un secolo dopo, una “ecclesìa” di eccentrici, di emarginati, di fissati, di trasandati. La piccola nobiltà terriera russa è un Lumpenproletariat urbano – o una piccola-media borghesia, culturalmente non c’è più nessuna differenza da decenni – che però continua a parlare, con un effetto sommamente straniante, proprio come parlavano la possidente Ljubov, la sorella e le figlie: con quella evanescenza, quella inconsapevolezza, quella mancanza di senso pratico da piccola nobiltà della Russia zarista al tramonto, a pochi mesi dalla rivoluzione del 1905.

Čechov c’è, ma ad “esserci” sono soprattutto gli attori. Questo Giardino di Lidi trova il suo significato più vero, la sua autenticità, nel modo in cui la regia permette l’emersione della personalità degli attori. E ora è la reazione del pubblico, il grado di attenzione e concentrazione che si percepirà durante lo spettacolo, a costituire l’ultima e decisiva fase dell’esperienza teatrale. La scelta di interpreti con traiettorie formative e professionali diverse, che si riflettono sul loro diverso modo di “dire” e di “sentire” Čechov, è l’elemento distintivo di questo lavoro. Quello a cui il pubblico partecipa è il frutto di un lavoro collettivo in cui la regia è stata concepita e gestita in funzione del lavoro degli attori e con gli attori.
La “vestizione” aggiornata agli anni Novanta, ma disadorna, quasi da mendicanti, serve anche a questo, a togliere ogni supporto simbolico e semantico alla prova recitativa. Ed è curioso che, insieme all’emersione di un ruolo “piccolo” come quello di Firs, a trasmettere un sovrappiù di energia vitale al pubblico ci sembra sia innanzitutto la “sorella” di Ljubov, divenuta donna rispetto al fratello Gaev dell’originale cechoviano, a cui Orietta Notari dona una umanissima stratificazione di dolenti vibrazioni, che riescono abilmente a tenersi lontane dall’ “overacting” pur essendo pronunciate con impetuosi accenti. Allo stesso modo spicca il Piscik di Giordano Agrusta, barbuto e stropicciato orsone che fa vibrare il possidente sommerso dai debiti di un inquietante squilibrio tra bonomia e nevrosi, tra buonumore e imminente crollo nervoso.

La Ljubov di Francesca Mazza è l’erede più coerente della scuola italiana, la figlia Anja di Giuliana Vigogna è un’adolescente dark e saggia, che rappresenta con energia l’elemento psichicamente stabile del circolo lunatico. Ilaria Falini è una persuasiva Vaja, figlia adottiva di Ljubov, una delle tante giovani donne che amano infelicemente nella galleria muliebre del teatro di Čechov. Il suo oggetto d’amore, il Lopachin di Mario Pirrello, è contagiato dalla vena di euforia sgangherata dei possidenti straccioni e non ha i tratti del mercante avido e volgare, il Trofimov di Christian La Rosa parte in sordina ma si carica di volitività grazie all’influenza positiva di Anja. La Charlotta queer di Maurizio Cardillo è perfetta, Massimiliano Speziani è il contabile Epichodov che con la sua eterna imbranataggine strappa risate vere e non a denti stretti, Angela Malfitano e Alfonso De Vreese chiudono lo staff della servitù con una Dunja e un Jaša degni di nota.
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IL GIARDINO DEI CILIEGI
Progetto Čechov, terza tappa
di Anton Čechov
traduzione Fausto Malcovati
regia Leonardo Lidi
con (in o.a.) Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Alfonso De Vreese, Ilaria Falini, Sara Gedeone, Christian La Rosa, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Orietta Notari, Mario Pirrello, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono Franco Visioli
assistente alla regia Alba Porto
produzione Teatro Stabile dell’Umbria
in coproduzione con Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Spoleto Festival dei Due Mondi
foto di Gianluca Pantaleo
Visto all’Arena del Sole di Bologna, 12 gennaio 2025

