OLINDO RAMPIN – «Voi che siete acculturati, spiegatemi: quale significato voleva esprimere l’autore»? Questa domanda che uno spettatore sconosciuto ha rivolto ai suoi amici all’uscita dal Teatro Municipale di Piacenza, dove i Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello nella versione di Valerio Binasco sono stati lungamente applauditi per l’ultima replica, dopo due anni di tournée nei teatri italiani, è di quelle che fanno la gioia caustica del connaisseur, per uno snobistico complesso di superiorità culturale.
Invece, potrebbe invitare a chiedersi quanto e come è cambiato il rapporto tra il pubblico e il teatro pirandelliano nei cento anni che ci separano dagli schiamazzi degli spettatori alla prima romana dei Sei personaggi, nel 1921, di questa «quintessenza del dramma moderno (…) che mette in discussione i presupposti esistenziali del dramma», e cioè che il dialogo e l’azione siano espressioni adeguate dell’essere umano, come dimostrò con insuperata chiarezza settant’anni fa Peter Szondi.
E’ dunque ancora così letteralmente «moderno» quel dramma? Continua a persistere un secolo dopo, se pur dissimulata in sala da unanimi applausi e bonariamente sussurrata all’uscita da teatro, un’eco del rifiuto del pubblico della prima rappresentazione? Una possibile causa della difficoltà a comprendere Pirandello è forse l’eterna immutabilità della borghesia italiana? L’autonomia dei personaggi, la dissacrazione del teatro borghese naturalistico, il conflitto tra vita e forma, tra vita e arte sono ancora un problema, o meglio un enigma? Oppure, come un’anziana spettatrice dice alla sua amica per giustificare il suo lieve malcontento con saggia benevolenza, mentre rincasano nella piacevole sera piacentina, «questo teatro è moderno», rivelando la persistente alterità di tutta una corrente di spettatori alla successiva e secolare traiettoria dell’avanguardia teatrale?

Quando gli spettatori stanno finendo di prendere posto in platea e sui palchi, a luci di sala accese, il sipario è parzialmente aperto e permette di vedere che qualcuno attraversa la scena, in fondo. Sembrano far parte dello staff del Municipale, invece quando inizia lo spettacolo capiamo che sono gli Attori, la cornice nella quale Pirandello inserisce la vicenda dei Personaggi. Non sono dunque, come in Pirandello, contemporanei dei Personaggi. Sono allievi, contagiosamente giovani e allegri, del Teatro che ha prodotto lo spettacolo, lo Stabile di Torino.
Il Capocomico è il convincente Jurii Ferrini. Nell’animato bozzetto che precede l’epifania dei Personaggi emergono tipi che ognuno può riconoscere nella gioventù teatrante. L’aiuto-regista munita di shopper festivaliera in cotone, l’Attrice in preda a un pianto nervoso da manuale nella immedesimazione con il personaggio coartata dal Capocomico, la Bellona che con il suo look pancia nuda da pin-up emerge nella pauperistica estetica teatrale d’ordinanza, e che con una orazioncina piena di luoghi comuni rivendica trionfalmente il diritto all’espressione (“siamo giovani!”) della troupe. La “volgarità” degli Attori dell’originale pirandelliano nei confronti dei Personaggi ne risulterà mitigata, anche perché, mentre il Capocomico fa resistenza, alcuni degli Attori mostreranno subito interesse alla loro vicenda.

Diversamente dagli Attori, i Personaggi di Binasco indossano abiti d’epoca. Questa mise en abîme in una classe di ventenni attori in erba dell’Italia post-fascista di oggi del dramma analitico, che sembra uscito dalla penna di Ibsen, vissuto dalle sei spettrali apparizioni dell’Italia proto-fascista degli anni Venti, ha importanti conseguenze drammaturgiche. In primo luogo dà all’irruzione di queste creature un valore diacronico, di storicizzazione e differenziazione, che attribuisce ai personaggi un accentuato effetto di epifanìa, alimentato dal goth style che li definisce esteriormente. I rossetti neri, gli occhi bistrati, la “maschera” di cerone sui volti aggiungono al fondamentale motivo pirandelliano della autonomia dei personaggi un senso specifico di alterità, di emersione illusionistica da un’altra epoca, che ne moltiplica l’aura di straniamento. Questa scelta, creando la percezione di una doppia temporalità, quella della contemporaneità della messinscena e quella della “classicità” dei sei personaggi, evidenzia il processo di epicizzazione del dramma aristotelico, di cui, com’è noto, quest’opera è una storica benché incompleta espressione.
Pirandello, nelle fondamentali didascalie, afferma che i Personaggi devono indossare delle maschere per distinguerli nettamente dagli Attori. La distinzione si fonda sulla natura artisticamente “creata” dei primi, natura non dunque di fantasmi, ma più significante di quella dei secondi. Quella indicazione aveva inoltre il significato di “fissare” in un unico sentimento i Personaggi: il rimorso nel Padre, la Vendetta nella Figliastra, eccetera. E’ una scelta che in realtà ha spinto un gradino più avanti la molta strada che i Sei personaggi avevano fatto per decretare l’impossibilità storica della forma drammatica. La adozione da parte di Binasco di abiti e soprattutto di un trucco dark assolve a una simile funzione di mascheramento e attribuisce all’intero sestetto una semplificazione dei caratteri, un sentimento unificante che approfondisce ulteriormente la loro differenza dagli Attori e dal Capocomico.

La grana delle voci dei Personaggi, la tonalità media della loro interpretazione è centrata su un accento che alimenta, anch’esso, la diacronia tra Attori e Personaggi. Valerio Binasco è un Padre più amareggiato dell’originale pirandelliano, con una persuasiva inflessione di malinconia e di fragilità, quasi di astenia morale. Il rimorso, suo sentimento primario, ne risulta caricato di dolente consapevolezza, di senile rassegnazione, che si esprimono in un passo lievemente claudicante, in vocalità pensose, di lucida negazione. Loico portavoce del soggettivismo pirandelliano, del suo fondamentale bergsonismo psicologico, che lo distingue così tipicamente dalla riforma brechtiana che identifica nella società e nel capitalismo l’origine della dissociazione dell’Io di tanti suoi personaggi, Binasco lo caratterizza in modo nuovo, come fosse divenuto inabile al ruolo di espositore della filosofia pirandelliana a causa di una cognizione fatta più dolorosa e sofferta del contrasto tra soggetto e mondo.
Giordana Faggiano è una Figliastra scattosa, vigorosa, filiforme, veemente. Lacera la scena con bellicosa impudenza, irrompe nei dialoghi con le sue famose, irritanti risate stridule. Nell’amato Bergson il riso è atto anti-empatico e vessatorio, e la Figliastra ne è un’incarnazione, proprio nel suo carattere iperbolico. La sua energica magrezza raggiunge l’acme nell’improvviso, rabbioso denudamento dei piccoli seni, corporea rivelazione della indicibile verità nascosta dal Padre. Sara Bertelà cerca, scruta, indaga le pieghe più riposte della propria espressione corporea e della propria voce per esprimere il dolore della Madre, trovando molteplici e sfumate variazioni sui sentimenti eterni della ritrosia, della vergogna, della timidezza, della colpa. Giovanni Drago è un Figlio dark, nell’aspetto e nello spirito. Tacito, cupo, mesto, del silenzio fa un’arma di difesa contro la Figliastra e il Padre, fino al tempestoso monologo, epifania solitaria nell’epifania collettiva di colui che «per lungo silenzio parea fioco», fino all’esplosione finale.

La più importante novità di riscrittura di questa versione di Binasco è il suicidio del Figlio. In qualche misura esso sembrerebbe poter portare fino in fondo quella abolizione dell’elemento drammatico che in Pirandello era rimasta non pienamente realizzata. Nel copione originale c’è un solo colpo di pistola, che uccide il ragazzino sia nel passato dei sei personaggi sia nel presente scenico della prova. Nella versione di Binasco quel colpo di pistola ne genera un altro, perché si spara anche il Figlio, e in modo molto più espressionistico. In un certo senso tornano così a scindersi i due piani tematici che Pirandello aveva fatto coincidere, quello del passato dei personaggi e del presente della prova.
Con quella soluzione pseudo-drammatica, Pirandello si fermò a un passo dalla completa transizione dal teatro drammatico al teatro epico. Il secondo colpo di pistola della versione di Binasco, il suicidio del Figlio, avviene solo nel presente della prova, mescolando più profondamente le acque dei due piani tematici. Il sipario, che nel copione originale si chiude del tutto, confermando la permanenza dell’elemento drammatico, qui lascia una breccia, similmente a quanto accade all’inizio dello spettacolo. Viene da chiedersi se questa innovazione sia frutto di una scelta consapevole dei suoi significati potenziali. E viene da chiedersi, infine, se e come abbia agito nella coscienza degli spettatori.
Olindo Rampin
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SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE
da Luigi Pirandello
con (in ordine alfabetico) Sara Bertelà, Valerio Binasco, Giovanni Drago, Giordana Faggiano, Jurij Ferrini
e con Alessandro Ambrosi, Cecilia Bramati, Ilaria Campani, Maria Teresa Castello, Alice Fazzi, Samuele Finocchiaro, Christian Gaglione, Sara Gedeone, Francesco Halupca, Martina Montini, Greta Petronillo, Andrea Tartaglia, Maria Trenta
regia Valerio Binasco
scene Guido Fiorato
costumi Alessio Rosati
luci Alessandro Verazzi
musiche Paolo Spaccamonti
suono Filippo Conti
aiuto regia Giulia Odetto
assistente regia e drammaturgia Micol Jalla
assistente scene Anna Varaldo
assistente luci Giuliano Almerighi
produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
PERSONAGGI E INTERPRETI
I PERSONAGGI DELLA COMMEDIA DA FARE
Il padre – Valerio Binasco
La madre – Sara Bertelà
La figliastra – Giordana Faggiano
Il figlio – Giovanni Drago
LA COMPAGNIA
Il capocomico – Jurij Ferrini
La compagnia – Alessandro Ambrosi, Cecilia Bramati, Ilaria Campani, Maria Teresa Castello, Alice Fazzi, Samuele Finocchiaro, Christian Gaglione, Sara Gedeone, Francesco Halupca, Martina Montini, Greta Petronillo, Andrea Tartaglia, Maria Trenta
Visto al Teatro Municipale di Piacenza nella stagione del Teatro Gioco Vita il 17 aprile 2025

