OLINDO RAMPIN | È noto che sessant’anni fa Adorno decretò la morte della forma dell’opera lirica che, a suo parere, continuava ad essere consumata anche se aveva perso la sua attualità spirituale e non poteva più essere compresa. Qualcuno sosterrà che il referto autoptico francofortese è invecchiato male. Resta vero, però, che la «crisi della rappresentabilità» è ancora la questione da affrontare nella messa in scena di un’opera di repertorio. Vale anche per la Bohème, un’opera su cui non tramonta mai il sole del consenso del pubblico, come ha confermato il bel successo, al Teatro Valli di Reggio Emilia, della nuova co-produzione del Teatro Regio di Parma, de I Teatri di Reggio Emilia e dei Teatri di OperaLombardia, firmata dalla regista Marialuisa Bafunno, diretta musicalmente da Riccardo Bisatti alla guida della Filarmonica di Parma, frutto del lavoro creativo di un gruppo di giovani vincitori di un bando under 35.

Come non far percepire, a meno di non vantarsi della propria ingenuità sentimentale, l’anacronismo che il tempo ha riversato sul profilo di questo quartetto di amici che non pensa a molto altro che a procurarsi leccornie e buon vino, e non parla mai di un pensiero, di uno scopo, di un fatto culturale? Come rinvigorire questo gusto tardo-romantico e piccolo-borghese per la debosciatezza? Come rendere credibile, in una cornice di spensierata goliardia maschile, l’oleografia d’amore e morte che ha per vittima una ricamatrice malata di tisi, emblema di tutto un filantropismo inesorabilmente passé?

ph Roberto Ricci

LA BOHÈME E KARL MARX

Per percepire nel 2025 gli stridori strutturali e narrativi del libretto della fortunata coppia Giacosa & Illica, non è nemmeno necessario ridere con il causticissimo Marx del 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, più stilettante di Adorno, che in «quello che i francesi chiamano bohème» aveva additato la feccia di tutte le classi, il blocco sociale dei sostenitori di Napoleone III, la schiuma di una società che tracimò senza ritegno, trovando nel colpo di stato la sua celebrazione. Meglio non sorridere troppo però, per non correre il rischio di dover riconoscere in Luigi Bonaparte il nostro album di famiglia, un antesignano fin de siècle di tutti i leaderismi farseschi e ripugnanti proliferati negli ultimi decenni, complice il tradimento dei chierici e dei giornalisti manigoldi. Oggi non c’è nemmeno il povero fascino rétro delle buone cose di pessimo gusto, della paccottiglia dell’estetismo decadente, nella pur fetida versione imperial-dannunziana.

Il termine che il filosofo tedesco ha interpretato con micidiale acutezza sarebbe rimasto confinato a qualche sparuta citazione, se nel 1896 non fosse intervenuto Giacomo Puccini a dare agli scialbi quadretti delle Scènes de la vie de Bohème pubblicati nel 1851 da un modesto letterato una fama che ha superato indenne più di un secolo di messinscene. Il suo eccezionale talento di melodista sarebbe stato capace di accarezzare il pelo del pubblico per il verso giusto e strappare commozioni a partire da qualsiasi testo.

ph Roberto Ricci

LA BOHÈME E IL MASCHILISMO

Qui a stridere è anche la credibilità dei “quattro amici al bar” come soggetti attivi di una conversione esistenziale nei confronti della povera ricamatrice morente. Sarà il senno di poi anti-misogino, ma la confessione di Mimì a Marcello fuori dal bar dove questi imbratta pareti, rivela che la crisi di coppia con Rodolfo è da manuale del perfetto sessista. La povera Mimì non può guardare né parlare con nessuno, il nostro pennivendolo fa scenate continue di gelosia da ossesso. E del resto fin dal primo incontro Rodolfo non aveva capito niente, da bravo maschio italico, nemmeno che la manina era gelida per la tisi e non per il suo presunto fascino bohémien. Mimì è, narrativamente, il personaggio che deve morire, lo si era capito subito da quella auto-presentazione insicura e timida, incerta anche sul proprio nome, credente non praticante: «Mi chiamano Mimì / il perché non lo so. / Sola mi fo il pranzo da me stessa. / Non vado sempre a messa, / ma prego assai il Signor»: epitome di un ideale femminile di debolezza e devozione, anch’esso sessista.

UNA BOHÈME EQUILIBRATA E LIEVE

La nervatura registica che regge con equilibrio questa Bohème è frutto di una visione rispettosa, delicata, lieve. L’idea della scatola di latta, che contiene la cuffietta feticcio di Mimì e viene riaperta da un Rodolfo divenuto anziano e si riproduce in formato gigante nella soffitta del protagonista è intonata a un’aura intima e malinconica, di delicato crepuscolarismo. Che egli scriva su una Olivetti, che appaiano altri anacronismi sparsi non cambia la sostanza. L’update temporale si arresta senza trovate scioccanti in un indistinto fine Novecento, che Bafunno, che firma anche i costumi, traduce in abiti depersonalizzati, di una ferialità che sembra avere come scopo principale quello di non farsi notare. Questo sembrano dirci i colori e le fogge degli abiti: i marroni e i verde del modesto outfit di Mimì, i giubbotti e i pantaloni dei quattro bohemiens, più da ceto operaio o impiegatizio che da artisti anticonformisti.

ph Roberto Ricci

La soffitta di Rodolfo è uno spazio vuoto dove un salotto in pelle marrone anni Ottanta, una scala da biblioteca e una semplicissima piantana sono corretti dalla scenografa Eleonora Peronetti con preziosi cromatismi delle pareti, che riecheggiano, senza forzature, il trattamento del colore di una sorta di template astrattista, amplificato con bella varietà dalle luci teatrali di Gianni Bertoli. Anche il divertimentificio del Quartier Latin viene raccontato con un sostanziale low profile, non fosse per quell’insegna enorme, ma in un font sobrio e per nulla Vieux France, che individua coerentemente nel Café Momus il tempio della bohème, la propensione alla crapula dei quattro aspiranti artisti.

Nel sestetto composto dalla coppia antipodica Mimì-Musetta e dai quattro compagnoni, la palermitana Roberta Mantegna è una Mimì teneramente consapevole del proprio destino, tecnicamente all’altezza nelle arie leggendarie, equilibrata nel finale commovente; Maria Novella Malfatti è una Musetta in forma, glitterata cattiva ragazza, Atalla Ayan un Rodolfo pieno di romantica sensiblerie, Alessandro Luongo un Marcello all’altezza del compito. Lo Schaunard di Roberto Lorenzi e il Colline di Aleksei Kulagin completano adeguatamente lo scapigliato sodalizio.

MONTALE E LA LINEA GOZZANO-PUCCINI

Eugenio Montale è stato notoriamente un appassionato esperto di opera, per un periodo anche un critico musicale. Forse anche per questo scrivendo su Guido Gozzano, dice che la sua poesia resta in quel clima che gli studiosi dell’ultimo melodramma italiano dell’Ottocento definiscono «verista», consapevole che da quel verismo all’estetismo decadente il passo è breve, e qui fa il nome di Puccini. Ed è proprio in un raffronto con la poesia romantico-borghese-verista di Gozzano che va interpretata un’opera come la Bohème. Ma se entrambi riducono al minimo comun denominatore l’arte italiana della loro epoca, ci pare che il tempo abbia messo in luce che il coté estetismo decadente sia prevalente e che un’opera come Bohème abbia in questa temperie il suo valore e i suoi limiti. Che questa messinscena, intenzionalmente o meno, lo abbia in qualche modo messo in luce, non è il suo minor pregio.

Olindo Rampin

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LA BOHÈME
Opera lirica in quattro quadri
Libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
musica di Giacomo Puccini

Interpreti
Mimì, Roberta Mantegna
Musetta, Maria Novella Malfatti
Rodolfo, Atalla Ayan
Marcello, Alessandro Luongo
Schaunard, Roberto Lorenzi
Colline, Aleksei Kulagin
Parpignol, Francesco Congiu
Benoit e Alcindoro, Eugenio Maria Degiacomi
Sergente Dei Doganieri, Angelo Lodetti
Doganiere, Matteo Mazzoli
Venditore ambulante, Matteo Monni

Filarmonica di Parma
Banda degli allievi del Conservatorio Peri-Merulo
Coro del Teatro Regio di Parma
Coro di voci bianche del Teatro Regio di Parma

Direttore, Riccardo Bisatti
Regia e costumi, Marialuisa Bafunno
Scene, Eleonora Peronetti
Luci, Gianni Bertoli
Coreografie, Emanuele Rosa
Maestro del coro di voci bianche, Massimo Fiocchi Malaspina
Maestro del coro, Martino Faggiani

Nuovo allestimento

Coproduzione Fondazione Teatro Regio di Parma, Fondazione I Teatri di Reggio Emilia e Teatri di OperaLombardia

Teatro Municipale Valli, Reggio Emilia, visto il 2 maggio 2025

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