OLINDO RAMPIN | Cosa unisce il Quartetto per archi n. 10 in mi bemolle maggiore, op. 74 di Beethoven, il Quartetto per archi n. 8 in do minore, op. 110 di Šostakovič eseguiti dal Quartetto della Scala, e la versione per danza del Dido and Aeneas di Henry Purcell firmata dalla coreografa Blanca Li e interpretata da dieci formidabili performer? Nulla in apparenza, se non il fatto di essere stati gli appuntamenti del Festival dei Due Mondi di Spoleto a cui abbiamo assistito, e di cui parliamo ora con colpevole ritardo. Tra il pubblico del Teatro Caio Melisso accorso per ascoltare i quartetti di Beethoven e Šostakovič, ci è parso di ritrovare tratti di quello che sessant’anni fa un celebrato sociologo e filosofo della musica avrebbe chiamato il tipo del consumatore di cultura, e che nel corso dei decenni ci sembra scivolato di tre o più posizioni, nella categoria dell’ascoltatore per passatempo o del miscellanous.
Certo non è colpa di nessuno se ci è toccato in sorte di condividere il palco con due signore, delle quali una ha dormito per buona parte del concerto, l’altra non è riuscita a mantenere la concentrazione per più di due minuti ed ha infine manifestato accessi di parossistico risentimento verso la scelta dei bis, secondo lei inadeguati, sbuffando e altercando, indifferente al fatto di non trovarsi nel tinello di casa sua. Ma un’atmosfera di disattenzione diffusa ci è parso circolasse qua e là in più settori di platea e palchi.

Un istruttivo compendio di capolavori delle avanguardie pittoriche espressionistiche primo novecentesche ci aspettava poi all’uscita del pubblico. Il foyer è di colpo diventato una scena popolata di personaggi non troppo dissimili da quelli dell’Intrigo di James Ensor conservato al Museo di Belle Arti di Anversa, o dai kulàk rappresentati nelle opere teatrali di Vsevolod Mejerchol’d. Numerosi esemplari ambosessi con mùtrie contegnose, irrispettosi della coda davanti al distributore d’acqua gratuita, hanno impedito agli spettatori beneducati di dissetarsi a proprio agio.
Il concerto non ha deluso chi si aspettava una prestazione tecnicamente all’altezza della fama degli interpreti. Se le aspettative del consumatore di cultura trovano soddisfazione nella showmanship, se il suo rapporto con la musica è contraddistinto più dalla conoscenza della biografia degli interpreti e della loro bravura tecnica che da un rapporto specifico con l’oggetto come “nesso significante”, va da sé che quartetti pieni di idee tematiche complesse, che si avvicendano continuamente, non sono i più consentanei a spettatori disattenti allo svolgersi della composizione e in impaziente attesa di melodie ritenute belle, di istanti grandiosi e clamorosi.

Il Didon et Énée andato in scena al Teatro Romano ci è sembrato interessante come campione di laboratorio di un utilizzo “strumentale” di una partitura musicale di grande notorietà, con finalità coreografiche atmosfericamente asimmetriche dall’oggetto di partenza. La tremenda tragedia amorosa della regina di Cartagine, suicida per essere stata abbandonata da Enea, che in Virgilio e in Purcell è vertice assoluto di sofferenza d’amore, viene coreografata come smagliante espressione di estetismo, di festosa magnificenza, che vive della seducente sensualità, della impeccabile tecnica e del mirabile atletismo dei giovani corpi delle danzatrici e dei danzatori.
Nella scrittura di Henry Purcell il fasto regale di alcuni passaggi è minima parte, rispetto al profondo patetismo delle scansioni tematiche intonate alla scoperta della decisione di Enea di partire, al dialogo-scontro tra i due, alla sofferenza della donna, alla decisione di uccidersi, alla descrizione dell’atto autodistruttivo. Nella versione di Blanca Li la propensione al performativo, al prestazionale, al voluttuoso, al sensuale, se risultano di eccezionale presa sull’emotività del pubblico, sembrano singolarmente autonomi nei confronti del linguaggio musicale.

Gettando acqua sulla scena, idea-perno coreografica della creazione, si è reso scivoloso e impervio il palcoscenico esaltando le doti acrobatiche e atletiche dei performer, il loro esatto controllo del corpo, la capacità di rapportarsi allo spazio della scena in modo millimetrico. Schizzando gocce d’acqua nei passaggi in scivolata, inzaccherando capelli e costumi da bagno dei performer, denudando i seni delle danzatrici, risulta ulteriormente esaltato il quoziente di raffinato sensualismo, ma a quel che si acquista in quella direzione non può tener dietro un veridico svolgimento della struttura coreografica, uno sviluppo dell’azione drammatica, un approfondimento interpretativo della creazione musicale.
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QUARTETTO DELLA SCALA
Francesco Manara, violino
Daniele Pascoletti, violino
Simonide Braconi, viola
Massimo Polidori, violoncello
Ludwig van Beethoven
Quartetto per archi n. 10 in mi bemolle maggiore, op. 74 “delle arpe”
Dmitri Šostakovič
Quartetto per archi n. 8 in do minore, op. 110
DIDON ET ÉNÉE
prima italiana
regia e coreografia Blanca Li
assistenti alla regia e coreografia Glyslein Lefever, Déborah Torres Garguilo
scene Blanca Li
assistente alle scene Nina Coulais
musica registrata Les Arts Florissants – William Christie
luci Pascal Laajili
assistenti alle luci Jean-Luc Passarelli, Boris Pijetlovic
costumi Laurent Mercier
assistente ai costumi Ghjulia Giusti Muselli
con Martina Consoli, Alizée Duvernois (Didon), Coline Fayolle (Belinda), Meggie Isabet, Maeva Lassere, Julien Marie-Anne (Sorcière), Quentin Picot, Gaël Rougegrez, Gaétan Vermeulen, Victor Virnot (Enée)
produzione Calentito – Compagnie Blanca Li
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Festival dei Due Mondi, Spoleto | 12 luglio 2025
Immagine in evidenza: una scena di Didon et Énée di Blanca Li – Ph Dan Aucante
