OLINDO RAMPIN – Non si può esprimere un parere critico su Misurare i salti delle rane di Carrozzeria Orfeo senza metterlo a confronto con altri lavori della stessa compagnia. Prendiamo Thanks for Vaselina. In quello spettacolo gli elementi del congegno teatrale erano inversamente proporzionali a quelli escogitati in questo nuovo testo, che dimostra quindi, quasi come in una conferma evidence based, la veridicità dell’impressione ricevuta allora.

In quel passato lavoro una particolare forma di cinismo, fatto di iper-realistico turpiloquio e cattivismo grottesco, individuato e perseguito dall’autore, Gabriele Di Luca, rivelava nel finale la sua reale funzione: quella di involucro distrattore che rivestiva un nucleo contenutistico di segno antitetico. Il candore e l’ingenuità della mozione dei sentimenti era così tanto più sorprendente quanto più rivelatrice a posteriori della “trovata” stilistica costituita da uno sboccato e iperbolico cinismo. I personaggi di quell’interno familiare degradato e informe, che avevano passato tutto il tempo a insultarsi, a brutalizzarsi con una violenza verbale esibita, finivano per rivelare un’anima diametralmente opposta, di eterni bambini assetati d’amore, bisognosi di tenerezza. Ovviamente quell’involucro “distrattore” non era solo un espediente, ma una scelta formale che aveva diversi scopi, uno dei quali era evitare il pericolo sempre incombente del sentimentalismo.

Misurare i salti delle rane non solo non contraddice, come potrebbe sembrare, ma conferma la natura di quel congegno, rovesciandone l’ordine e invertendone i rapporti di forza. La fabula rivela ora fin dall’incipit la «veritade ascosa sotto bella menzogna», come per un impellente desiderio di conversione e confessione. E’, ancora, la ricerca di una immediata autenticità affettiva, in questo caso l’aspra lotta per uscire da una crisi esistenziale che deve affrontare i suoi penosi grovigli, pena lo scivolamento in una palude interiore, che prende qui i connotati tipici della colpa nella madre e di un ormai consumato amore coniugale nella giovane donna. Centro di gravità risolutore delle nevrosi dei due personaggi in due diverse età della vita è, come da manuale, la matta del villaggio: un’allevatrice di rane saltatrici, picchiatrice d’uomini, ladra nei minimarket di paese.
Lo spazio-tempo è un borgo montano simboleggiato da una casa di pietre torrentizie con un raggricciante interno povero anni ‘90: la cucina economica con lo straccio appeso, le sedie impagliate, i plaids scozzesi, lo scaffaletto in stile, le Pagine Gialle, il mangianastri e il telefono a disco. Il paesaggio sonoro è altrettanto gravido di nostalgie tardo-novecentesche: da Janis Joplin a Tracy Chapman ai Take That, per tacere degli intermezzi di poche note di intimistica introspezione che segnano i soliloqui sulla panchina metafisica delle due donne in crisi.
Il fatto è Betty, quarantenne inoccupata in salopette che si ingozza di junk food e tenta di baciare la giovane carina in fuga dalla città e in cerca di silenzi via dalla pazza folla, ha una funzione di rieducatrice sentimentale. Tutto il processo di apprendimento, iniziato su una panchina nel primo incontro tra le due, è imbastito quasi didatticamente su compiti di realtà: tecniche masturbatorie, incitamenti al furto e allegoriche narrazioni di inevitabili delusioni eterosessuali. Una progettazione inizialmente rifiutata ma gradualmente attuata in tutte le competenze da acquisire dalla minuta e attraente borghese in jeans e giubbino di antilope (che colpo al cuore!) che viene “dall’altra parte”, cioè dalla ipocrita civiltà dei consumi cittadina. E cada qui una lode delle tre attrici, Marina Occhionero, Elsa Bossi e Chiara Stoppa, che reggono con calibrato controllo emotivo tutto un complicato marchingegno di umori metafisici e gialli, familiari e sociopatici.

La incombente deriva sentimentale del percorso trova nella allevatrice di rane una nuova versione del perno del congegno formale della Compagnia. Il linguaggio osceno e sessualizzato, qui più temperato, il brutalismo kitsch, l’esagerazione grottesca, l’umorismo paradossale, non sono più lo strato-base dell’artefatto, ma la sua àncora di salvataggio. Infine, lo scioglimento dell’intreccio, l’omicidio e il seppellimento violentemente caricaturato del Maschio stupratore e traditore, autore di canzoni falsamente profonde, alfa e omega di tutte le aberrazioni morali e culturali di una plurimillenaria storia patriarcale, diventa concreto strumento auto-terapeutico di un legame solido per il solidale terzetto di donne: cemento di una liberata comunità, femminile e femminista. Sicché il titolo potrebbe anche diventare, parodiando Dostoevskij, Delitto senza castigo, o Delitto e salvezza.
MISURARE IL SALTO DELLE RANE
Uno spettacolo di Carrozzeria Orfeo
Drammaturgia Gabriele Di Luca
Regia Gabriele Di Luca e Massimiliano Setti
Con (in o.a.) Elsa Bossi (Lori), Marina Occhionero (Iris), Chiara Stoppa (Betti)
Assistente alla regia Matteo Berardinelli
Musiche originali Massimiliano Setti
Scene Enzo Mologni
Costumi Elisabetta Zinelli
Una produzione Fondazione Teatro Due, Accademia Perduta/Romagna Teatri, Teatro Stabile d’Abruzzo, Teatri di Bari e Fondazione Campania dei Festival – Campania Teatro Festival
in collaborazione con Asti Teatro 47
