Veleia PC – Qual è il senso del lavoro – perché di lavoro duro si tratta – dell’attore nel teatro di oggi, che divora i suoi figli con la smania di produzioni veloci e sempre nuove? Quale senso ha compiere sforzi intellettuali, fatiche fisiche, gesti feroci e azioni d’arte… se poi tutto si spegne in un pugno di repliche?
Su Paneacquaculture ne ho parlato con Fausto Russo Alesi, che prima di debuttare al Festival di Teatro Antico di Veleia con la sua rilettura di Ifigenia in Aulide, adattata a un contesto novecentesco e contrappuntata dal sottotitolo Un miracolo scandaloso (interessante la recensione di Olindo Rampin), ha lavorato intensamente con un gruppo di giovani interpreti per attraversare i sentieri scoscesi della formazione.
Ecco l’intervista pubblicato su Paneacquaculture. E di seguito alcuni estratti integrativi all’intervista con il regista, focalizzate sulla scena odierna e sul lavoro a Veleia.

Fausto, esiste una differenza tra la “gavetta” oggi e nel passato?
Sicuramente ci sono differenze tra la “gavetta” del passato e la “gavetta” di oggi. Prima c’erano molti meno attori, molte meno richieste per diventare attori o registi o sceneggiatori. Le scuole adesso… forse troppe… Sono piene di domande di ammissione. Sicuramente oggi c’è anche un’offerta molto importante che arriva dalle produzioni televisive e che non sempre va ad attingere al serbatoio professionale. Tornando alla prima domanda, spesso non si è pronti per affrontare questo lavoro e non basta aver partecipato a una serie televisiva o a un film per garantire la tua professionalità. La preparazione, solo in casi rari, può avvenire esclusivamente con le esperienze sul campo o certamente non basta soltanto una scuola per garantire qualità ed eccellenza. Dopo la formazione nelle Accademie, inizia il tuo percorso di ulteriore formazione proprio sul campo del lavoro conoscendo le molteplici e differenti realtà artistiche. Ridefinirei la parola “gavetta” come un tempo necessario alla pratica e agli incontri lavorativi, per scoprire e potenziare la tua identità artistica, la tua autonomia. Credo che sia indispensabile avere la curiosità di andare a cercare quei luoghi, quelle persone, quei maestri, quelle realtà che ti possano veramente aprire le porte della consapevolezza, risuonare profondamente su di te e sul tuo immaginario, per farti fare la scelta successiva che ti porterà ad essere l’artista che diventerai.
Qual è il valore dell’improvvisazione? E fin dove può spingersi l’attore?
Io credo che l’improvvisazione sia una strada all’interno del percorso di costruzione, nel senso che per me un atto artistico è sempre un atto di costruzione. Poi, nel caso del teatro, l’attore ripercorre ogni giorno questa costruzione con forza e con l’intenzione di alimentarla e riempirla di senso e di vita, ogni giorno scoprendo qualcosa di nuovo.
Io credo che l’improvvisazione significhi lavorare con qualcosa che non sappiamo, qualche cosa che nasce lì per lì, quindi sorprendersi di se stessi ma anche dell’incontro con l’altro : quando incontri qualche cosa che non ti aspetti può succedere qualche cosa che non avevi previsto e questo è molto ricco per te e per il lavoro che stai facendo. Questo non significa che quando faccio uno spettacolo improvviso in continuazione, perché questo significherebbe tradire un percorso di costruzione che insieme al regista e agli altri attori si cerca di restituire. Una direzione è necessaria per poter essere chiari nel portare una linea di racconto coerente.
Anche sul set, la possibilità d’improvvisare ha bisogno di una grande fase di preparazione prima. All’interno della costruzione, comunque, ci possono e ci dovrebbero sempre essere delle zone misteriose e mi piace parlare più che di improvvisazione, di libertà, di libertà che un attore, un artista deve sempre garantirsi all’interno di una qualsiasi struttura. Libertà significa per me mantenere viva la nostra presenza e autorevolezza in quello che facciamo.
Regia e autoregia… come vedi questa dicotomia? Si integrano?
Credo che un attore non debba rinunciare mai a capire chi è e cosa vuole essere dentro un progetto artistico. Indipendentemente dalla regia, io credo che un attore debba poter mettere in campo istanze, il desiderio di indirizzare la propria presenza scenica verso qualcosa che lo riguarda profondamente, agganciarsi intimamente dunque. Mai deresponsabilizzarsi e aderire in maniera cieca alla direzione di un regista, perché la tua presenza sia una presenza che abbia vita-
Io credo che qualsiasi opera artistica sia frutto di un dialogo tra le parti – non potrebbe essere altrimenti, almeno in teatro o al cinema è così. Quindi regia e autoregia sono due aspetti che, secondo me, si incontrano e si possono incontrare. Certo ci vuole la sensibilità del dialogo e la sensibilità del sapere anche rispettare le gerarchie, termine che utilizzo positivamente, perché tutto possa funzionare al meglio e perché tutto possa avere una direzione che vada a segno.
Come vedi la scena italiana oggi?
Vedo senz’altro una ricchezza di talenti e molta voglia da parte delle nuove generazioni di prendersi la responsabilità di esserci. Purtroppo vedo tante difficoltà nel sistema teatrale italiano e disattenzioni, contraddizioni e reiterazioni che si consumano sotto gli occhi di tutti.
Da due anni vado in scena con un testo profondamente politico di Eduardo che è “L’arte della commedia”. Scritto nel 1964, ci racconta come fosse oggi, le battaglie per il riconoscimento umano e professionale degli artisti e le difficoltà del nostro settore. Eduardo si chiede profondamente quanto il teatro, l’arte in generale sia socialmente utile, quanto sia necessaria per la sana crescita di un paese o comunque delle nuove generazioni e quanto sia fondamentale per capire insieme chi siamo. Tutto questo la pandemia ce lo ha ricordato e dimostrato in maniera inequivocabile.
Credo che ci siano molte questioni da risolvere nel sistema teatrale italiano, io credo che probabilmente si produca troppo e si facciano crescere e sviluppare molto poco le opere che vengono messe in scena. Tendenzialmente siamo arrivati al paradosso che uno spettacolo è già morto prima di iniziare. Al massimo fai due settimane di repliche e non verrà ripreso, soprattutto se il cast è numeroso e men che meno andrà in tournée o almeno è molto difficile se non tra scambi dei Teatri Nazionali.
La pandemia ha inequivocabilmente fatto chiudere le piccole realtà e il teatro indipendente (grande risorsa del panorama teatrale) ha fatto una grandissima fatica a poter resistere. Bisognerebbe dare veramente spazio e ascolto alla scena teatrale italiana a 360 gradi e indipendentemente dai numeri. E bisognerebbe dare possibilità reali alla nuova drammaturgia di poter andare in scena, ai giovani di avere delle case teatrali, degli spazi.
Oggi i giovani attori non hanno uno spazio dove provare o devono pagarlo a peso d’oro, e magari una volta diplomati dalle scuole devono appunto autofinanziarsi o comunque hanno già tutta una serie di spese che devono sostenere per l’alloggio e per il vitto in città sempre più esageratamente costose. Le possibilità poi sono molto poche per quanto riguarda il teatro, i provini sono sempre meno… è un circuito abbastanza chiuso. Hai la “sensazione” spesso… che chi lo fa profondamente questo mestiere, chi ci dedica tutta la vita o vorrebbe dedicarci tutta la vita, sia poi alla fine estraneo a questo mondo che viene molto e troppo pilotato dalla politica.
Il teatro fa parte dell’essere umano e per questo che io credo sopravviverà sempre. E poi ci vuole molto poco per farlo e anche in questo senso è fertile, vivo… Andrebbe però tutelato tutto il settore e i diritti che riguardano gli artisti, a cominciare dal contratto nazionale che deve essere rivisto e a cominciare dal periodo delle prove, che è sempre più esiguo. Non si può fare Shakespeare in 25 giorni, è impossibile, non è giusto. Bisogna avere il tempo di immergersi dentro quello che si fa, bisogna dare lo spazio e il tempo per poter studiare. Non si può considerare il teatro solo come un intrattenimento… Il teatro è per il cittadino, è per tutti e quindi bisogna lavorare per creare quei luoghi e quello spazio in cui ciò che raccontiamo, ciò che portiamo in scena possa essere realmente un momento di confronto.

Quali sono I nuovi progetti su cui stai lavorando?
Nella prossima stagione porterò ancora in scena, per il terzo anno consecutivo, “L’Arte della Commedia” di Eduardo De Filippo con una straordinaria compagnia di attori. I progetti su cui decido di investire le mie energie vorrei sempre che potessero avere una vita lunga e matura al massimo delle sue potenzialità e in questo senso mi piacerebbe molto portare ancora in scena “Ifigenia in Aulide: un miracolo scandaloso”. I grandi testi d’altronde si possono far crescere soltanto portandoli in scena sera per sera, quindi credo che sarebbe giusto incontrare ancora il pubblico e dare la possibilità a tutte le attrici e gli attori che hanno fatto il percorso di poter sviluppare il loro lavoro. E per quanto riguarda la messa in scena credo senza ombra di dubbio che parlare di guerra, parlare di vittime sacrificate gratuitamente da un mondo maschile e patriarcale accecato dal bisogno di dominare e di ricevere consenso, parlare del rapporto dell’essere umano con il potere, con la politica, con la religione, le sue pulsioni e le sue menzogne, sia necessario anche quando non riusciamo a dare risposte alle domande complesse che la Tragedia ci pone.
Al termine del percorso di lavoro siete arrivati all’allestimento di Ifigenia, come si è sostanziato il lavoro?
Il laboratorio è frutto di un mese intenso di lavoro con gli attori e le attrici, con una straordinaria squadra organizzativa, tecnica e artistica che ha collaborato con me per l’allestimento. Soprattutto un lavoro a monte e fondamentale con un’autrice unica come Letizia Russo sulla traduzione e poi ovviamente sull’adattamento.
Per me è sempre stata una priorità lavorare a un progetto che potesse essere utile per chi lo fruisse. E nonostante il laboratorio sia gratuito – e questo va sottolineato, con gioia e per restituire tutti i meriti a Paola Pedrazzini, a XNL Teatro e Cinema, al Festival di Teatro Antico di Veleia e alla Fondazione di Piacenza e Vigevano – volevo che potesse dare la possibilità a ogni partecipante che ha investito molto nell’essere lì di poter concretamente lavorare e potersi sperimentare su qualche cosa di forte e avere un concreto spazio di approfondimento.
Quindi l’adattamento è stato anche fatto con l’attenzione a questo aspetto, alla possibilità che ognuno potesse esserci al cento per cento, cercando di creare uno spettacolo dove ogni ruolo fosse protagonista di qualcosa. Io credo molto in questo. Abbiamo costruito uno spettacolo, questo è stato l’obiettivo, far coincidere il laboratorio con uno spettacolo e abbiamo lavorato intensamente e con onestà, cercando di metterci a confronto con tematiche importanti e complesse e cercando di restituirle e farle risuonare. Volevo portare in scena gli occhi testimoni di un bambino Oreste e raccontare il tragico destino di una bambina innocente: Ifigenia. Il suo triste e improvviso cambio finale è un metaforico plagio paterno a cui non possiamo assuefarci…
Cosa ti fa sentire soddisfatto di questo allestimento?
Mi rende soddisfatto l’avere provato a ritagliarsi un tempo per fare qualche cosa che non è solo per te ma per qualcun altro.
Mi fa sentire soddisfatto abitare luoghi prestigiosi come quello di “Bottega-Fare Teatro”, grazie alla forza di una direttrice attenta, creativa e appassionata come Paola Pedrazzini con cui ho condiviso questo progetto, luoghi in cui si possa dare spazio al tramandare saperi, luoghi di scambio in cui possano nascere nuove direzioni, nuove storie, nuove possibilità. Soprattutto luoghi che slegati dall’ansia produttiva, diano la possibilità di mettersi in discussione, luoghi anche in cui poter sbagliare, in cui poter ricominciare da capo sotto certi punti di vista. Non sempre il mondo del lavoro ti dà questa opportunità.
Vorrei che si desse visibilità a questo aspetto e chi viene a contatto con luoghi come questo, mi piacerebbe che avesse questa predisposizione, la consapevolezza di venire a partecipare alla costruzione di qualche cosa che cerca di garantirsi delle priorità che spesso nel mondo del lavoro vengono sacrificate. Un luogo come questo richiede attenzione, alle esigenze del singolo, ai percorsi del singolo, attraverso la pratica e l’osservazione e l’ascolto degli altri, provando a lasciare qualche cosa che poi ognuno possa metabolizzare e sviluppare al meglio nella sua quotidianità.
Infine sono soddisfatto e grato a tutta la meravigliosa squadra di lavoro da Letizia Russo ad artisti speciali come Emanuela Dall’Aglio ,Max Mugnai Alessio Maria Romano, Giovanni Vitaletti e infine Davide Gasparro, Roberta Faiolo e Corrado Cristina. E soprattutto i 22 bravissimi e generosissimi protagonisti: Giulia Acquasana, Salvatore Alfano, Chiara Alonso, Giuseppe Benvegna, Simone Di Meglio, Jacopo Dragonetti, Marita Fossat, Sara Fulgoni, Elisa Grilli, Alessio Iwasa, Pietro Lancello, Carlotta Mangione, Ilaria Martinelli, Michele Marullo, Irene Mori, Elena Orsini Baroni, Giovanni Raso, Giorgio Ronco, Arianna Serrao, Chiara Terigi, Riccardo Francesco Vicardi, Mattia Zavarise e il piccolo Marcello Russo Alesi.
