OLINDO RAMPIN | Tre pappagalli rari e grandi come gatti, giallo-blu o candidi, appollaiati sui trespoli davanti a una cappella sul lato sinistro della chiesa di San Mattia a Bologna; dietro di loro i trasportini e le tutor/accompagnatrici. Nella cappella a fianco, in una nicchia, la statua di una santa decapitata fin sotto le spalle; davanti all’altare due sferruzzatrici a maglia, in testa il chullo peruviano di alpacca col paraorecchie. All’ingresso della chiesa, una costruttrice e disegnatrice di dodecaedri e altre geometrie cartacee; nella prima cappella di sinistra due saccopelisti (o è un’eco di realtà dei tanti senzatetto che vivono sotto i portici di Bologna, frutto delle sempre più stridenti disuguaglianze?). Sulla controfacciata un’ Annunciazione piena di ingenua espressività interrompe le grate della cantorìa dietro alle quali, immaginiamo, le famiglie patrizie e le monache domenicane fondatrici di questa chiesa conventuale potevano assistere alle celebrazioni, come era d’uso, senza essere viste.

foto di Stefano Scheda

Non è per nulla neutrale il modo in cui l’Ex Chiesa di San Mattia a Bologna reagisce e interagisce con The nothing island (prototype for a new work) di Fabrizio Favale & First Rose, presentato in esclusiva per il Festival Danza Urbana di Bologna. Ai tanti segni sopravvissuti in questa chiesa pur pesantemente depredata nei secoli, gli stucchi, le pitture, le sculture, Favale e First Rose aggiungono “trovate” compositive e installative che ci sembrano in un certo senso quasi rivisitazioni ironiche del fattografismo del teatro russo del Novecento. Solo che al posto delle moderne aziende agricole e delle opere ingegneristiche del nuovo mondo sovietico, qui sono inseriti “fatti” minimi del quotidiano, irrelati, parvenze del mondo animale, vegetale e umano, che integrano il momento performativo mettendolo in contatto artistico-visivo e concettuale con entità poste in un perimetro di confine, in un limbo che fa parte integrante dell’atlante universale della creazione.

Foto di Stefano Scheda

Fatto sta che gli spettatori, disposti lungo i quattro lati, ricevono stimolazioni visive e uditive da ogni parte mentre la scena è sincronicamente attraversata dai performer, a diverse ondate, in più entrate e uscite dalle quinte, quasi in successive e multiple processioni o sfilate: a coppie, a piccoli e grandi gruppi, in assolo, da una porta che immette nell’altare della Chiesa.
Intanto un pappagallo fischia, vocalizza, apre la lunga coda, uno degli sleeping men si sveglia, si alza e passa davanti al pubblico. Non è un’opera chiusa, ma un ecosistema, di segno antispecista, che include brani ed esemplari di vita vivente, in cui il paesaggio umano, che è solo una parte, non il tutto, è costituito dal pubblico e dai corpi di otto persuasivi performer, felici della loro giovinezza e del loro incedere leggero, preciso ed eretto: tre danzatrici, Martina Di Giacomo, Alicia Ianeselli, Valentina Verini e cinque danzatori: Daniele Bianco, Daniel Cantero, Giuseppe Catalfamo, Matteo Di Ciommo, Alessandro Girardi.

Foto di Stefano Scheda

La lingua dei loro corpi sembra perlopiù quella di uno zibaldone di appunti, il test di una coreografia da costruire: le prime pennellate di una tela neo-astrattista, che nella loro solo apparente indefinitezza segnano però il primo passo, decisivo per l’individuazione del tono stilistico di fondo, di un’atmosfera cinetica che formerà lo strato-base del lavoro che verrà. Sono disegni e traiettorie di costruita casualità, di voluta non consequenzialità, che contengono ricordi di nobili tradizioni della danza moderna e contemporanea, ma come appena accennati e poi variati in neo-morfologie improvvise, difficili senza sembrarlo. Un’ambiguità di segni che si ritrova nelle sembianze dei performer, nelle tute e canotte e calzini da palestra, con ambivalenza d’effetti nelle danzatrici: i capelli strettamente raccolti in chignon da ballerine classiche, il trucco accentuato e le espressioni solenni, separate da tutto ciò che le circonda, indicazioni visive temperate però dalla ferialità dei costumi, dai pantalonacci delle tute Adidas, anch’essi contraddetti ulteriormente dalle canottine slimfit.

Foto di Gino Rosa

Performer, pappagalli, piante rare, uomini dormienti, magliaie sembrano rimandare, visitati come sono da un discorso sonoro naturale e pre-musicale, da una sintassi di soffi, sussurri, sibili e fischi di vento, a un mondo esterno, forse freddo, come sembrano dirci anche i copricapi in uso nelle Ande e i sacchi a pelo. Sembrano evocare quasi senza parere la speranza di un’Utopia, di un’isola del nulla che potrebbe essere un new world, più ancora che un new work, come recita il titolo del lavoro. Certo un universo, anzi un multiverso, non più, si spera, antropocentrico.

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THE NOTHING ISLAND. PROTOTYPE FOR A NEW WORK

Creazione site-specific per l’Ex Chiesa di San Mattia sostenuta da Musei Nazionali di Bologna – Direzione Regionale Musei Nazionali Emilia-Romagna

coreografia Fabrizio Favale
assistente alla coreografia e maestro di ballo Po-Nien Wang
costumi, atmosfera e spazio First Rose
knitting a cura di Atelier Della Lana Bologna
pappagalli a cura di Animal Spot Milano
piante rare a cura di Poti Pota Bologna
danzatori Daniele Bianco, Daniel Cantero, Giuseppe Catalfamo, Matteo Di Ciommo, Martina Di Giacomo, Alessandro Girardi, Alicia Ianeselli, Valentina Verini
sleeping boys Filippo Pagotto, Filippo Scotti
arti visive Valentina Palmisano
prodotto da KLm – Kinkaleri / Le Supplici / mk
con il contributo di MiC, Regione Emilia-Romagna, Comune di Bologna
lavoro realizzato in residenza artistica presso Teatro Consorziale di Budrio

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