OLINDO RAMPIN | Se Twyla Tharp, insignita del Leone d’oro della Biennale Danza 2025 diretta da Wayne McGregor, fosse un’artista figurativa del passato, potrebbe somigliare a un pittore come Giambattista Tiepolo. Ce lo ricordano la bravura tecnica, il gran mestiere, il virtuosismo da grande decoratrice d’affreschi coreografici smaglianti. Al Teatro Malibran di Venezia abbiamo visto il suo dittico in prima europea composto da Diabelli, coreografia del 1998 sulle 33 variazioni beethoveniane, e Slacktide, nuova creazione su Aguas da Amazonia di Philip Glass.
L’elegantissimo calligrafismo di Tharp si esprime attraverso un linguaggio nitido, che profuma d’alta scuola, una colta sintesi classicismo-modernismo, quasi una storia corporea della danza, che ricompone i generi con irripetibile abilità combinatoria, complice la qualità tecnica altissima dei suoi interpreti.

Ne viene soffiata in platea come un’aura boreale, uno stilismo aristocratico e decorativo, che contiene un fondo di luminosa cerimonialità. L’espressione del vero, della vita, ne risultano come trasfigurati in un manierismo virtuosistico, più fine che pensoso, più raffinato che profondo. I valori formali della sua danza sono così strutturati e cesellati che la scrittura dei due spettacoli presenta una smagliante continuità stilistica: una riconoscibilità di disegno che si impone sulla diversità delle partiture musicali, eccezion fatta per due passaggi di Slacktide, di straordinaria bellezza, in cui il movimento è frenato, contratto, imploso.
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Se Carolina Bianchi, a cui è stato assegnato il Leone d’argento della Biennale Danza, fosse un’artista figurativa del passato, potrebbe prendere le sembianze di Caravaggio, non foss’altro che per reincarnare quel dialogo immaginario tra i due pittori in cui Roberto Longhi aveva posto il contrasto tra il purissimo virtuosismo decorativo del veneziano e la ricerca del vero del lombardo, la sua ricerca, per usare le parole che gli fa pronunciare Longhi, della “vita reale, non la finzione, non l’allegoria. Non ci sono forse i barcaioli a Venezia?”

Ma è realmente il vero al centro dell’interesse dell’artista brasiliana? E quale vero? Quando si entra al Teatro Piccolo Arsenale dove va in scena The Brotherhood, secondo capitolo della sua trilogia Cadela Força, il boccascena è interamente coperto da un velario semitrasparente su cui è riprodotto proprio un quadro che rappresenta una scena di rapimento, di sopraffazione maschile su più figure femminili. Questa scena resta immersa per il tempo che precede l’inizio dello spettacolo in un brevissimo tratteggio sonoro, angosciante e ossessivamente iterato. Potrebbe essere un Ratto delle Sabine: un rapimento, ma anche un “rape”, parola che in inglese non a caso ha il triplo significato di stupro, di rapimento e di depredazione.

Il triplo senso della parola rape è al centro dello spettacolo e convive con l’ambiguità della parola brotherhood, titolo polisemico come quelli delle opere dell’amata Sarah Kane: è fratellanza, ma è anche cameratismo, alleanza e complicità maschile: nella prima sequenza, irreale, biblica e profetica, un padre sussurra un aberrante fervorino, di brotherhood e fatherhood, al neonato che tiene amorevolmente in braccio. La solidarietà fraterna, terza parola chiave del motto rivoluzionario-francese, viene ri-significata dunque nella complicità di genere, condivisione di deteriore mascolinità. Il lavoro di Carolina Bianchi non è però un manifesto di militanza femminista, è una “summa” delle sue esperienze, mossa da una volontà di rimappatura di una intera tradizione culturale, un ardimentoso tentativo di risistemazione “enciclopedica” che sconfina in diverse discipline: nella storia dell’arte figurativa, nella letteratura, nel mito, nella cronaca.
Nell’onnivora volontà di abbracciare con il suo sguardo penetrante storia e mito delle ferite psichiche e fisiche inferte dagli uomini alle donne, la leggenda del ratto delle Sabine può così essere associata con la body art dell’artista e attivista Ana Mendieta, il mito della Lucrezia romana suicida per non aver retto allo stupro di Tarquinio convive con il suicidio di Sylvia Plath, il ratto di Proserpina, stuprata da Plutone, dio dell’Ade, coabita con l’atrocità contemporanea della vicenda di Gisèle Pélicot, la Lavinia stuprata e mutilata della lingua e delle mani del Tito Andronico di Shakespeare giovane abbraccia Sarah Kane, riferimento centrale per l’artista brasiliana, che dedica alla drammaturga inglese morta suicida a ventotto anni nel 1999 una preghiera laica, davanti a un’immagine che ricorda quasi un Rimbaud ragazzino. Anche Sarah Kane era rimasta impressionata dalla truculenta fantasia del giovane Shakespeare: in una sua opera, Cleansed, la ricalca schiettamente in uno dei personaggi vittime della violenza del sadico protagonista. Il modello elisabettiano delle efferatezze teatrali, che risale al Seneca tragico, agisce con forza anche nel teatro di Bianchi, ma in una diversa, stratificata e più ampia organizzazione drammaturgica.

A simboleggiare la sua insaziabile voracità conoscitiva, la tensione verso una risignificazione della tradizione, è il simbolico brogliaccio di 500 pagine che l’artista tiene in mano per gran parte dello spettacolo, e che appoggia a uno scrittoio, dove si siede. Solo che invece di una lucertola, dei petali di rosa o altri simboli della sofferenza amorosa e della fragilità della vita, come nel giovane gentiluomo ritratto da Lorenzo Lotto e conservato alle Gallerie dell’Accademia a Venezia, l’amore della Bianchi per la darkness si esprime in due mani che tengono una sfera, da profetessa, una corda-cappio e un vibratore rosa, con cui praticherà su di sé una breve e annoiata masturbazione.
Quelle 500 pagine sono un dizionario ragionato di violenze sessuali, un Organon di sopraffazioni maschili, di cui è piena la storia culturale e artistica dell’Occidente. La tecnica costruttiva si organizza per successive digressioni e per incastri di citazioni, per composizioni di sequenze giustapposte. Analogamente significativa di un principio di ordinamento enciclopedico è la volontà di prendere un mito fondante della civiltà occidentale, per riscriverlo. Bianchi sceglie la violenza sessuale come strumento critico interpretativo di lunga gittata, non mero j’accuse o come polemica del momento. Ma lo carica anche di “sentimento”. Così la sua “summa”, la sua secolare storia del rape, della violazione fisica e morale della donna da parte dell’uomo, è rivissuta traumaticamente, sensitivamente, visivamente.

La performer si serve del genere “intervista” per sottoporre un fittizio regista maschio, “il” regista che non può che essere un uomo, il “genio” in cui possiamo riconoscere molti modelli anche troppo noti, per ordire un dialogo maiueutico-socratico che smaschera sottilmente la “falsa coscienza” del grand’uomo. E che finisce con un gelido e chiarificatore coito, orchestrato dalla regista che, inamidata in un frac mascolino, si libera con freddezza dei pantaloni e delle mutande, fa riprendere da una videomaker, in un bianco e nero rétro, la propria vagina denudata e auto-manipolata, simboleggiando le oppositive espressioni del volto dei due: rapito dal piacere orgasmico lui, demonica e caricaturalmente disgustata lei. Nei prologhi che precedono l’incontro, affrontando il problema dei classici, l’autrice aveva preso di mira la falsa coscienza di Trepliov, maschio debole solo in apparenza, nel Gabbiano di Čechov: ora il grande regista intervistato non per caso si uccide nello stesso modo, con un colpo di pistola fuori scena. La volontà di evocare efferatezze sceniche, come in Sarah Kane, vuole però che il suo corpo venga impacchettato e appeso per i piedi per tutto lo spettacolo, come un trofeo e un memento.

Così anche la messinscena di una conferenza di studiosi tutti maschi, che discettano sulle 500 pagine della sua opera, sembra finalizzata a parodiare l’intellighenzia maschile, anche se non è priva di momenti di commozione. Del resto Carolina Bianchi ha creato una compagnia, Cara de Cavalo, dove i performer sono tutti maschi, speculare e liberatorio rovesciamento del rapporto di forza tradizionale.
Se la Bianchi, diversamente da Sarah Kane, nega e rifiuta la catarsi, vuole tenersi alla larga anche dalle derive del sentimento, così l’emozione non può che essere sporca. In un tenebroso carro allegorico intitolato Dirty Pathos, i suoi sette performer con maschere e costumi da kink party inscenano un bukkake sulla regista, che termina ironicamente con spruzzi di bottiglie dosatrici di salse. Ma ironia e trauma, finzione e realtà si fondono, perché nei 500 fogli volanti c’è il racconto di un caso di cronaca di una vera brotherhood brasiliana, dedita a quella pratica, ma senza il consenso della donna.
Misto di attrazione e repulsione è anche il sentimento con cui Carolina Bianchi accosta Jan Fabre: ammirato maestro di stile, di cui vengono però ricordate le pratiche manipolatorie e vessatorie messe in atto all’interno della sua formazione, Troubleyn. L’artista brasiliana si tiene per sua e nostra fortuna distante dal misticismo sbrilluccicante delle sue tartarughe giganti in bronzo di silicio o dall’estetica mortuaria e ossessiva dei teschi di corallo con un topo nelle fauci, anche se il decadentismo funereo che recupera un medioevo immaginario rivive, ma con vera visionarietà, nella apparizione di lei che mima la decollazione dei sette accademici a convegno sulla sua opera. Nel riferirsi alla tradizione anglosassone delle efferatezze sceniche, Carolina Bianchi aggiunge un anello inedito e per lei centrale nella linea genealogico-culturale, accostando a Shakespeare e Sarah Kane il contributo narrativo di Emily Bronte. Sopraffazioni, morbosità e sadismi non sono estranei alla fabula, non certo romantica love story, di Cime tempestose. Ed è con un immaginario monologo del demonico e crudele Heathcliff, che un altro membro di quella turpe confraternita maschile che attraversa i secoli, chiude esemplarmente questo secondo capitolo della trilogia di Carolina Bianchi. Attendiamo con curiosità di vederne il terzo e conclusivo – (Olindo Rampin)
DIABELLI
Coreografia: Twyla Tharp
Performance: Renan Cerdeiro, Angela Falk, Miriam Gittens, Oliver Greene-Cramer, Kyle Halford, Daisy Jacobson, Marzia Memoli, Nicole Ashley Morris, Alexander Peters, Reed Tankersley
Pianoforte: Vladimir Rumyantsev
Con: Third Coast Percussion (David Skidmore, Sean Connors, Robert Dillon, Peter Martin)
E: Constance Volk (flauto)
Musica: 33 Variazioni su un valzer di Anton Diabelli, op. 120 di Ludwig van Beethoven
Costumi: Geoffrey Beene
Luci: Justin Townsend
Commissione: Cité de la musique, Paris; Barbican Center, London; University of Iowa – Hancher Auditorium, Iowa City
SLACKTIDE
prima europea
Coreografia: Twyla Tharp
Musica: Aguas da Amazonia di Philip Glass
Performance musicale dal vivo: Third Coast Percussion (David Skidmore, Sean Connors, Robert Dillon, Peter Martin)
E: Constance Volk (flauto)
Performance: Renan Cerdeiro, Angela Falk, Miriam Gittens, Oliver Greene-Cramer, Kyle Halford, Daisy Jacobson, Marzia Memoli, Nicole Ashley Morris, Alexander Peters, Molly Rumble, Reed Tankersley
Costumi: Victoria Bek
Luci: Justin Townsend
Commissione: New York City Center, New York; John F. Kennedy Center for the Performing Arts, Washington, D.C.; UCSB Arts & Lectures, Santa Barbara
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CADELA FORCA TRILOGY, CHAPTER II: THE BROTHERHOOD
prima italiana
Ideazione, testo e regia: Carolina Bianchi
Con: Carolina Bianchi, Chico Lima, Flow Kountouriotis, José Artur, Kai Wido Meyer, Lucas Delfino, Rafael Limongelli, Rodrigo Andreolli, Tomás Decina
Drammaturgia e partnership di ricerca: Carolina Mendonça
Dialogo su teoria e drammaturgia: Silvia Bottiroli
Direzione tecnica, suono, musica originale: Miguel Caldas
Assistenza alla regia: Murillo Basso
Scenografia: Carolina Bianchi, Luisa Callegari
Direzione artistica e costumi: Luisa Callegari
Luci: Jo Rios
Video e proiezioni: Montserrat Fonseca Llach
Ripresa coreografica del prologo e consulenza sul movimento: Jimena Pérez Salerno
Telecamera dal vivo e supporto artistico: Larissa Ballarotti
Fotografia: Mayra Azzi
Tirocinio: Fernanda Libman
Direzione di scena e supporto alla produzione: AnaCris Medina
Assistenza alla produzione: Zuzanna Kubiak
Direttore della produzione, tour management, comunicazione: Carla Estefan
Relazioni internazionali, produzione, diffusione: Metro Gestão Cultural (BR)
Produzione: Metro Gestão Cultural, Brazil; Carolina Bianchi Y Cara de Cavalo
Coproduzione: KVS – Théâtre royal flamand, Brussels; Theater Utrecht; La Villette, Paris; Festival d’Automne, Paris; Comédie de Genève; Internationales Sommerfestival Kampnagel, Hamburg; Les Célestins, Théâtre de Lyon; Kunstenfestivaldesarts, Brussels; Wiener Festwochen Holland Festival, Amsterdam; Frascati Producties, Amsterdam; HAU Hebbel am Ufer, Berlin; Le Maillon, Théâtre de Strasbourg – Scène européenne
Con il supporto di: Tax Shelter da Belgische Federale Overheid The Ammodo Foundation, the Netherlands
Immagine di copertina: ph Andrea Avezzù
Biennale Danza 2025, Venezia, 17 e 18 luglio 2025
