Praha CZ – La morte del poeta, drammaturgo e intellettuale ceco Václav Havel ha lasciato un segno forte nella capitale e nel Paese. E si apre una riflessione sulle valenze di questa impronta.
Per noi è scomparso un autore che è entrato nella storia del teatro, in particolare per la valenza civile e dissidente del suo lavoro. Quando però il peso di un intellettuale condiziona la storia di un Paese, vale la pena di estendere l’analisi.
Davanti al suo ufficio, in Vorsilská, un pennone sostiene una bandiera luttuoso a mezz’asta. Qualche lumino, qualche fiore. Qualcuno si ferma a leggere una frase.
Václav Havel – poeta, drammaturgo e intellettuale civile, nonché ultimo presidente della Cecoslovacchia e primo della Repubblica Ceca divisa (suo malgrado) – è morto e attraversando le strade di Praga si respira un’atmosfera sospesa. Eppure quello che colpisce non è un senso di commozione diffuso (sia pure in forma slava), ma piuttosto la capacità di elaborare il lutto come momento di riflessione. E questo passaggio sembra coinvolgere in maniera collettiva un popolo che ha nel Dna un individualismo drastico e, a tratti, esasperato.
Nella capitale boema, osservando simboli e persone, si comprende come la scomparsa di Havel sia in sé occasione importante più per il pensiero che per il sentimento. La folla che mercoledì mattina ha accompagnato la bara verso l’esposizione al Castello, i tre giorni di lutto nazionale proclamati dal presidente Václav Klaus (acerrimo oppositore politico di Havel), Piazza Venceslao coperta di candeline, la forte attenzione mediatica su segni del trapasso sembrano infatti meno legati alla persona di Havel e più intimamente connessi al suo ruolo di simbolo.
I cechi non si stringono attorno all’artista che non è più, ma sembrano colpiti da una scomparsa che ricorda loro il trapasso dal regime comunista al liberalismo spinto, da un mondo bloccato e chiuso a un dinamismo dettato dalla centralità della Boemia nel flusso di relazioni e investimenti che attraversa la Mitteleuropa. Ma soprattutto la morte di Havel sembra dare pubblica evidenza al superamento di una generazione che ha vissuto passioni e contraddizioni di un mondo che non esiste più.
Se oggi la Repubblica Ceca è probabilmente il Paese più laico e anti-comunista dell’Est Europa, lo è per opposizione al passato. Eppure gli interventi di rimozione di quasi tutti i segni di quel tempo sono stati radicali e le nuove generazioni non hanno mai conosciuto il comunismo. E non sono pochi a rimproverare a Havel di aver “svenduto” il Paese agli americani (non senza interessi di famiglia).
Ecco che questi sono giorni di contraddizioni e riflessioni. I giornali cechi hanno evidenziato – non senza critiche – la regia strumentale del lutto curata dal presidente Klaus. E passando lungo la via Nàrodnì si scopre che, a pochi metri dagli sparuti lumini davanti all’ufficio vuoto di Havel, sul marciapiede che vide morire alcuni dissidenti per mano della polizia c’è (qui sì) un tappeto di ceri che occupa il passaggio e in molti si fermano a rendere omaggio a quella memoria.
Dunque la lettura sugli effetti della morte di Havel può essere ambivalente: da un lato esprime l’addio a una generazione e a un pezzo di vita che viene consegnato alla Storia, dall’altro è occasione iconica per rivalutare un sentimento nazionale che oggi vive di anti-europeismo diffuso e di orgoglio da capitale che dialoga con il mondo. I cechi non danno l’impressione di piangere Havel, ma di attraversare un varco che ha i connotati di un passaggio storico.
Leggi la storia e guarda le foto di Havel su IlPost
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