
Modena – Che l’ordito drammaturgico negli spettacoli di Pippo Delbono sia l’umore esistenziale dello stesso Delbono è cosa assodata e spesso apprezzata. Questo significa però che lo spettatore è chiamato a confrontarsi con intensità e banalità, fragilità e ordinaria creatività dell’istrione di Varazze.
Accade così che negli ultimi anni si finisca per aspettarsi da Delbono qualcosa di simile a una carezza – perché di pugni, nonostante un impeto che vorrebbe essere provocatorio, ne arrivano ormai pochi – e una carezza può essere un amplesso amoroso o un gesto fine a se stesso. Appartiene probabilmente alla seconda possibilità il nuovo Orchidee, presentato in prima assoluta al festival VIE, che chi ha conosciuto la bellezza e l’intensità di cui è capace l’artista può accettare come una sorta di passaggio di decompressione.
L’oggetto del lavoro di Delbono sembra essere il senso multiforme e pervasivo dell’amore, che viene distribuito attraverso una teoria di quadri, parole, suoni affastellati con maestria navigata. Orchidee tocca alcuni nodi cruciali – verità, universalità, intimità, amoralità, gioco – non senza ironia, ma con qualche vezzo e troppi facili ammiccamenti ai paradossi che ogni interpretazione oltranzista dell’amore porta con sé. La densità poetica conosciuta in altri lavori scarseggia, la forza drammatica onirica ironica di alcune scene portanti del passato lascia il posto a un rassemblement di estratti video volutamente grezzi, ma con effetto deludente.
Delbono si propone di evacuare il banale enfatizzando il vero di fronte al falso, la vita in contrasto con la degenerazione del morire. Lo sguardo si spinge a esplorare corpi lacerati e deformati, un incendio, la malattia e la voce ansimante del maestro di cerimonia cerca di accompagnare alla visione di un mondo come rappresentazione.
Quello che manca, però, è una verità capace toccare, di essere carezza che non blandisce ma colpisce.
La poesia è mutilata. E se possiamo pensare che sia una scelta intenzionale del regista, il risultato non genera tensione ma un po’ di distrazione.
Non mancano passaggi più intensi, come la danza in cerchio in semibuio che richiama Matisse o una suggestione di ombre che si stagliano su un luminoso giardino innevato di ciliegi (con annessa citazione di Čechov) o la dedica a tutto volume di Child in time dei Deep Purple.
In questo concerto di suggestioni e illusioni, Bobò diventa riferimento immobile (costretto in sedia a rotelle da una frattura) e perno di molti movimenti, mentre Delbono ondivaga tra un frammento e l’altro di amore sgarbato.
Giambattista Marchetto
visto al Teatro Pavarotti di Modena, nel cartellone del festival VIE
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