Venezia – «Bisogna ritornare sui passi già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre». Cogliamo lo spunto di queste parole di Josè Saramago per riflettere sul riallestimento dell’opera I was sitting on my patio che Robert Wilson ha curato per una produzione del Théâtre de la Ville di Parigi.
Il lavoro riprende una creazione che il regista americano aveva portato in scena per la prima volta nel 1977 assieme a Lucinda Childs e oggi nel ruolo dei protagonisti ci sono due splendidi interpreti come Christopher Nell, uno degli attori più conosciuti del Berliner Ensemble, e Julie Shanahan, straordinaria interprete del Tanztheater Wuppertal di Pina Bausch.

I was sitting on my patio è un monologo privo di ogni apparente dramma o significato, costituito da un flusso casuale di associazioni di idee che si riversa sul pubblico stagliandosi su un set in bianco e nero, costruito come di consueto con puntiglio architettonico su linee luminose di grande impatto. La drammaturgia è costituita da spezzoni di frasi sconnesse che diventano suono immaginifico e suggestione, mai processo significante in senso stretto, il tutto accompagnato da movimenti spigolosi che si susseguono sempre più febbrili.
Nel presentare l’opera la regia parla di «minimalismo clinico» e di un austero «zapping verbale», perché in realtà non succede nulla, tutto accade e poi accade di nuovo nel corpo dei due performer, «come in una giostra».
Sotto il profilo squisitamente tecnico lo spettacolo è impeccabile – come probabilmente era impeccabile 44 anni fa – e i due interpreti regalano al pubblico una performance di una bellezza abbagliante, incastonando la propria ispirazione nel quadro semantico costruito da Wilson.
«Non ho modificato una sola parola del testo – ha rimarcato l’autore-regista americano in una intervista – e la coreografia di base è la stessa». Se dunque le parole sono le stesse e i movimenti sono gli stessi, come in altri lavori l’artista crea «una cornice e poi una volta che gli attori trovano il loro spazio in essa, il pezzo diventa loro».

Le parole di Wilson lasciano intendere un lavoro complesso, cesellato sui corpi e sulle personalità dei due artisti sulla scena, che rendono “nuova” e contemporanea la pièce. E lo stesso regista ha iniziato a lavorare al riallestimento cercando di capire cosa potesse trasmettere al pubblico di oggi. Con gli interpreti il regista ha trovato un nuovo ‘linguaggio’ e il lavoro è cambiato.
Difficile dire se questo spettacolo abbia oggi la stessa forza di quarant’anni fa. «È sempre difficile rielaborare qualcosa che appartiene ad un altro tempo», ammette lo stesso Wilson. E al di là della curiosità, viene da chiedersi se non sia più un esercizio di stile che un progetto orientato ad una nuova ricerca.
Se è vero, infatti, che il pubblico di oggi è più abituato a confrontarsi con opere giocate principalmente su una architettura visiva, anche in assenza di una drammaturgia di significanti verbali, è altrettanto evidente l’effetto ‘vintage’ di una pièce immaginata come rottura 44 anni fa. Certo, rispetto a qualche esibizione perentoria di approssimazione e banalità che arriva sulle scene oggi l’opera di Wilson è un regalo inestimabile.
Di fronte a questa impeccabile esibizione di bravura e bellezza, qual è allora l’impatto su chi 44 anni fa era abituato a un teatro ‘altro’ e ha vissuto la grande stagione della ricerca? E come percepisce invece questo gioco riproposto in scena uno spettatore giovane del 2021? Spetta al pubblico l’ardua sentenza, ma forse si genera un senso di distacco che ha il sapore dell’esplorazione filologica.
visto al Teatro Goldoni di Venezia, nel cartellone curato dal Teatro Stabile del Veneto