Venezia – È la regista e autrice brasiliana Christiane Jatahy, figura originale dell’ondata teatrale d’oltreatlantico che ha portato un contributo significativo sulla scena europea degli ultimi decenni, il Leone d’oro alla carriera per il Teatro della Biennale di Venezia. Il Leone d’argento va invece al filmmaker e performer Samira Elagoz, che incrocia origini egiziane e finlandesi, autore di inedite e abrasive docu-performance. Hanno dunque un respiro globale anche i Leoni proposti quest0anno dai direttori del festival Stefano Ricci e Gianni Forte (ricci/forte).
La premiazione avverrà nel corso del 50. Festival Internazionale del Teatro che si svolgerà dal 24 giugno al 3 luglio 2022 a Venezia.

TRA CINEMA E TEATRO
«Impietosa ed acuta osservatrice della violenta crudeltà del nostro mondo – scrivono nella motivazione ricci/forte – Christiane Jatahy potenzia un linguaggio originale interstiziale che unisce la forza radicale della sua dimensione poetica con il contrappunto di un mordace pensiero politico, sempre attraversato da un intrepido spirito di ricerca tra presente e passato. Abrogando le regole dogmatiche della rappresentazione e mettendone in scacco i teoremi agonizzanti, Christiane Jatahy fonde i lidi del cinema e del teatro, attraverso un personale attrito di stampo brechtiano-wagneriano, per esplorare quei territori più ostici in cui si rivela maggiormente l’instabilità di una realtà fittizia incarnata dai suoi Personaggi/Persone, orchestrando così una vorticosa danza tentacolare con la presenza carnale dei loro corpi in movimento urlanti verità ad ogni singolo spettatore».
Per Jatahy sembrano dunque non bastare le parole per esportare altrove una forma di vita, dunque «lancia in orbita potenti sequenze di immagini e, servendosi del montaggio in diretta, utilizza la macchina da presa come parte integrante del gioco scenico – alla maniera dei film di Cassavetes – smontando i dispositivi dell’illusione naturalistica per strutturare il proprio teatro e creare cosi delle spiazzanti trappole narrative di lancinante bellezza in cui il pubblico rimane a tal punto attivamente prigioniero e affascinato da ciò che si svolge davanti ai suoi occhi da non provare più alcun desiderio di volerne uscire».
DA STRINDBERG A CECHOV
Christiane Jatahy arriva per la prima volta in Italia alla Biennale Teatro nel 2015, con la conturbante versione del classico strindberghiano La signorina Giulia, trasportato dalla società nordeuropea puritana e classista di fine 800 al Brasile di oggi con un linguaggio che moltiplica le prospettive facendo coesistere cinema e teatro in unico spazio. L’espansione di virtuale e reale e la riscrittura radicale dei classici catturano nuovamente lo sguardo del pubblico l’anno seguente, quando alla Biennale Teatro Christiane Jatahy presenta E se elas fossem para Moscou?. Questa volta sono le più famose Tre sorelle del teatro europeo a essere calate in uno spiazzante Brasile contemporaneo, mentre prospettiva teatrale e cinematografica si intrecciano in simultanea, creando due versioni distinte ma complementari che danno luogo a un’unica creazione.
Attesa la novità di quest’anno presentata a Venezia: O agora que demora (The lingering now) è la seconda parte del dittico Nossa Odisséia, dove l’epica greca è accostata a materiali documentari girati in Palestina, Libano, Sudafrica, Grecia, Amazzonia con oltre 40 interpreti in un mix fra racconto omerico e storie vere di artisti rifugiati.

VIAGGI INTIMI E POETICI
Per la prima volta alla Biennale Teatro arriva l’artista Samira Elagoz con Seek Bromance, la sua ultima creazione in prima per l’Italia. Nata dall’ibernazione forzata al tempo del Covid, Seek Bromance è la storia della relazione fra persone transgender ambientata alla fine del mondo.
Scrivono i direttori motivando il premio: «Mettendo in scena il corpo e sezionandolo visualmente con i suoi paradossi e le sue multiformi sfaccettature alla maniera di Nan Goldin, focalizzandosi con sguardo implacabile sulla solitudine, sulla relazione umana tra sessi nell’era digitale e in una società che sfugge alle regolarizzazioni e controlli, esplorando i confini porosi tra reale e virtuale, indagando sugli effetti dell’amore, del gender, della femminilità, del desiderio, del suo conseguente annichilimento e dei sotterranei brutali giochi di potere, Samira Elagoz percorre un viaggio intimo e poetico, ma al tempo stesso ironico e perturbante, intorno ai clichés e alle questioni riguardanti non solo l’auto-rappresentazione nei media, i comportamenti del maschio nei suoi tentativi di seduzione in un rapporto di dominio e/o di sottomissione, ma anche dello strumento-corpo come campo di un’imprescindibile e necessaria sperimentazione artistica».
Camera da presa alla mano, usando se stesso e avvalendosi delle sue esperienze personali nutrite sulle applicazioni e siti web, amalgamate con video e filmati fotografici di vita reale, evidenziando la manipolazione dei corpi su queste piattaforme e allargando abilmente i rapporti tipici tra mascolinità e femminilità in rete, per le sue creazioni Samira Elagoz, flirtando con le possibilità infinite del mezzo performativo, plasma un linguaggio originale offrendoci – al fine di sperimentare il proprio percorso gender in mutazione come bacchetta rabdomantica espressiva – un marchio unico di performance-reportage, di multimedia happening e di docu-fiction”.