20121231-110155.jpgBologna – L’estetica è pop con qualche scivolamento verso la mutilazione estetizzante di senso, le sonorità rumorose e spesso disturbanti coprono azioni concitate, le parole sono solipsisticamente autoreferenziali e mai aperte al dialogo. È la conferma di un’aspettativa Imitationofdeath, il nuovo lavoro di ricci/forte, visto a Teatri di Vita a Bologna (dopo una settimana a Milano) con l’impressione di non essere quasi mai spiazzati.
I due registi, infatti, danno costantemente l’impressione di avere la lucidità dello sguardo dall’alto, di non perdere mai il controllo, di procedere per accostamenti premeditati di concrezioni concettuali possibilmente stridenti. È forse questo il limite che sta a monte di un lavoro tanto atteso e così rumoroso: la premeditazione. Ovvero il tentativo costante di stupire, che però finisce per diventare manieristico, almeno per chi non conservi tracce evidenti di disturbi legati alla violenza in famiglia, alla fase genitale, all’infatuazione religiosa, all’omosessualità repressa.
È questo l’effetto congiunto di paradossi forzati e assenza di approfondimento. ricci/forte sembrano infatti espressione di una generazionale fluidità e fugacità (o rapacità?) nella concentrazione. Se in Grimmless i due autori si erano concentrati su un nucleo critico, sviluppandone con uno stile precipuo una riflessione poetica articolata, con Imitationofdeath sfiorano troppi nodi senza affondare su nessuno, scegliendo di giocare sulla miseria della memoria, sulla delusione di una vita fatta di mistificazioni, sul torpore della mente… senza dare autentiche sferzate di energia e provocazione.
Assodato che il pubblico – numeroso ed entusiasta – che accorre alle loro performance è fidelizzato e certo alieno a certe prurigini bigotte, ricci/forte non possono contare sul vigore turbativo di ormai consuete oscenità verbali e corporali, ordinarie nudità, fetish da addio al celibato. Né possono accontentarsi di lanciare sassi per l’autoriflessione, perché le onde non si propagano se il contemporaneo (per definizione) non è stagno ma palude.
Dunque gli argomenti non mancano, lo stile espressivo può essere carico e sofisticato ad un tempo, le suggestioni hanno il pregio di essere espresse con ironia (un po’ troppo compiaciuta, quasi a prendersi sul serio). Certo tutto questo non esime dalla necessità di affilare la lama per andare oltre le rapide, allusive pennellate.
In questa vita che puzza di morte dominano lacrime e isterie, grumi di corpi in fuga dalla luce, travestimenti ed esibizionismi, ulcere da fobie sopportate e macerate, spasmi di corpi crocefissi e deposti. Come in un girone infernale pop, la condanna di un Sisifo collettivo diviene un contrappasso estetizzante. E Imitationofdeath si trasforma in una showroom di tristezze egotiche, di egocentrismi furiosi, di canzoni citate e ridondate, di parole troppo fragili per aprire una dialettica. Il finale è forse la parte più intensa, sulle note dei Pink Floyd, con la prolungata metonimia dei ricordi come perno di un senso che ha la nostalgia della memoria.

Giambattista Marchetto

visto a Teatri di Vita, Bologna

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