Venezia – Si può obiettare che Jan Fabre sia tanto immaginifico da risultare finto, che sia creativamente ammiccante per quel gioco che mescola tecnologia e densità verbale. Eppure anche il suo “Prometheus – Landscape II” ospitato alla Biennale Teatro ha la potenza tutta teatrale di un affresco drammaticamente fiabesco.
Luci impeccabili e lancinanti, suoni tanto reali da penetrare nelle immagini facendone gesti vivi, parole gridate o sussurrate con esigue sbavature, corpi percossi e legati e stremati. C’è tutto un universo onirico in scena, che forse induce a pensare una provocazione ricercata anche nei cliché. E ancora è l’esagerazione raffinata la cifra di un’opera densa e ironica.
Ecco la chiave di lettura che Fabre merita con questo suo secondo passaggio su “Prometheus”: una deliberata ironia tragica, che – sola – permette di cogliere il tessuto drammaturgico nella sua densità altisonante e di avvicinare l’eroe incatenato/crocefisso al centro della scena a quel brulicare sul terreno: al bondage delle anime perdute, al gioco orgiastico di una umanità disperata e sopraffatta, ai corpi posseduti di menadi/burattini senza respiro. Fabre dà concretezza visiva (a tratti visionaria) a quell’idea di sfida al divino che è nel fuoco rubato da Prometeo, che è nel dono che condanna l’umanità alla conoscenza. E l’impianto coreografico congiunge leggerezza e tensione animalesca.
“Instruction is distruction”, ricorda Pandora nel finale, eppure la vera forza dell’umano si rivela proprio nella capacità di imparare, di adattarsi, di sopravvivere nonostante tutto, facendo della sopportazione un paradigma di sfida all’eternità sempre uguale a se stessa (e in quel rimando al patire ritorna la sovrapposizione tra prometeico e cristologico, celebrando l’eroe che soffre ma non muore).

Giambattista Marchetto

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