Venezia – C’è un’immagine che diventa icona drammaturgica. C’è un pensiero ideativo che si devolve autoreferenziale sulla scena, per accartocciarsi nel tempo di un piccolo incendio fatto di un grumo di luci. C’è un concetto astratto e ctonio che giustifica la messinscena di “Sul volto del figlio di Dio”, l’opera di Romeo Castellucci che – dopo aver girato mezza Europa – è passata a Venezia nel programma della Biennale Teatro diretta da Alex Rigola.
Il titolo è icona del concetto. E l’icona fisica è una enorme effigie di Cristo che domina la scena e cattura lo sguardo nell’ambigua rappresentazione di un agnello fragile come un uomo. Sotto quello sguardo il regista-demiurgo fa agire due emblemi di fragilità: un vecchio incontinente e un figlio accudiente. Stremati e pazienti, incarnano la sopportazione al sacrificio e quella rinuncia alla lotta che si illumina nella poetica della debolezza.
Castellucci ha buon gioco a muovere la pietà empatica per un quadro umano, troppo umano. Inquadra con uno sguardo crudo la nudità di un vecchio in balia di un corpo fuori controllo e la dedizione filiale che sopporta fino allo stremo. E solo quando i nervi cedono, ecco lo scarto concettuale: il volto (consolatorio?) del figlio, dell’agnello di Dio, si sporca e si strappa per lasciare emergere la professione di fede nel “buon pastore”. Eppure dietro “YOU ARE MY SHEPHERD”, un poco in ombra, emerge chiaro un “NOT” che apre la strada al dubbio. Ma qui Castellucci si ferma, non argomenta e offre in pegno la magnifica scenografia.

Giambattista Marchetto

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