Praga CZ – «Non puoi continuare ad amare per trecento anni. E non puoi andare avanti ad avere speranze, creare e avere delle curiosità per trecento anni. Tutto diventa noioso». Con la dichiarazione finale della protagonista Elina/Emilia, il drammaturgo boemo Karel Čapek rende con le parole di un pensiero intimo la dichiarazione programmatica che, con un risvolto sociologico, chiude la questione posta da L’affare Makropulos.
A differenza di Janácek, che musicando l’opera di Čapek scelse di enfatizzare soprattutto il dramma umano e interiore che sottende il plot, Robert Wilson sceglie per l’allestimento di questo testo sul miraggio dell’immortalità la formula del teatro musicale con un piglio che sembra meglio rispettare l’originaria verve ironica dell’autore.
Richiamandosi a stilemi vicini alla tradizione espressiva mitteleuropea dei primi decenni del Novecento, con una riuscita sintesi tra grottesco e visionarietà, Wilson dà forma alla propria geniale attenzione per i particolari cruciali. Abbandonando ogni tentazione di realismo, il regista trasforma i personaggi in puppet stralunati, che possono aver studiato alla scuola di Brecht per esser poi travolti dalla giocosità noir di Tim Burton.
La trama misteriosa del caso Makropulos si snoda dunque con i connotati di una favola grottesca, magistralmente interpretata da Soňa Červená nel ruolo della protagonista Emilia Marty e dall’intero cast, chiamato a misurarsi con il rispetto del testo e con la sua contestuale forzatura. Pavla Beretová è un’ottima Kristina, sommando la duttilità vocale alla modulazione perfetta di gesti e movimento, ma meritano una citazione anche Jan Bidlas (Albert Gregor) e Vladimir Javorský, che nei panni dell’uomo con il bastone fa da collante alle strane vicende narrate in scena.
I costumi di Jacques Reynaud, traslucidi dall’apparenza plastificata, dai colori quasi metallici, contribuiscono alla valenza quasi onirica di questa messinscena. Come le scenografie ideate dallo stesso Wilson, che sono una magnifica fusione di astrazione e complessità visiva: dalle pile di documenti che si alzano meccanicamente dal pavimento al ‘dietro le quinte’ che si aggroviglia in un gioco escheriano, fino all’appartamento minimalista di Emilia Marty che si tramuta in tribunale. Senza tralasciare l’utilizzo delle luci, che recupera alcuni connotati della tradizione boema nell’utilizzo dei puntamenti mobili per enfatizzare le singole figure nel loro biancore parossistico, e il preciso accompagnamento sonoro del trio Vladimír Strnad, Pavel Verner e Šimon Veselý.
La grandezza del regista texano ha trovato dunque espressione nella scelta di rispettare il testo, valorizzandolo con la ricerca di un equilibrio tra emozione e paradosso.
Giambattista Marchetto
visto al Stavovské divadlo, Praga CZ