Padova – La disperazione incollata alla vita distrutta da un destino violento trova sollievo e si riequilibra, ancora disperatamente, nella violenza. Nella tristezza di un gioco al massacro senza redenzione, che rivela una sconfitta corale senza possibilità di ritorno, Massimo Carlotto immerge i protagonisti di ‘Oscura immensità‘, romanzo del 2005 che Alessandro Gassman ha voluto trasporre sulla scena con Giulio Scarpati e Claudio Casadio nel ruolo di protagonisti.
La prima riflessione che impone il confronto con l’opera è legata al rapporto tra il testo e la rivisitazione drammaturgica. Gassman sceglie infatti di rimanere aderente allo scritto tanto da interpretare la messinscena come una parziale narrazione degli eventi, incarnata sì dagli attori, ma impegnandoli in una sorta si cronaca in presa diretta dei propri atti e dei propri pensieri. Questa scelta di fatto enfatizza la derivazione letteraria, mettendo in secondo piano l’incarnazione di drammi e contraddizioni nel corpo e nella voce dell’attore. Scarpati e Casadio diventano in qualche modo interpreti critici della propria disperazione. E nonostante la tensione generata dalla qualità dell’interpretazione e da una intelligente elaborazione registica, risulta inevitabile l’innesto di un diaframma narrativo che allontana lo sguardo di chi osserva i fatti dalla piena aderenza empatica.
L’impianto della messinscena – i toni cupi, i tagli di luce violenti e inquieti, i corpi in costante tensione – restituisce comunque la densità del dramma. Tutto ruota attorno alla scarcerazione di un ergastolano malato di cancro, momento cruciale che consente al protagonista di conoscere l’identità del complice che materialmente gli uccise moglie e figlio. L’assassino paga con la vita gli anni trascorsi in contumacia, mentre l’ergastolano si suicida attribuendosi la vendetta. Nel dipanarsi della storia, lo spettacolo affonda nelle pieghe dei pensieri, dei dubbi, degli smarrimenti dei personaggi, portando in luce i paradossi dell’oscurità che è prima di tutto interiore, una oscurità che invade la vita con l’ombra della morte. Non ci sono possibilità di redenzione o riscatto: pur gustando la vendetta il protagonista (Scarpati) rimane prigioniero della propria tragedia familiare; pur libero il colpevole (Casadio) assapora momenti intensi, ma solo per assumere coscienza di aver sprecato l’esistenza e di non avere possibilità di futuro. Ciascuno vive dunque una propria intima prigionia e ricerca un senso, tanto effimero quanto vuoto, in gesti estremi e consapevoli.
L’epilogo non porta dunque ad una soluzione, ma è solo l’esplosione sommessa di quel vuoto di senso che è nella violenza e nella vita osservata sotto il cono d’ombra della morte.
Giambattista Marchetto
visto al Teatro Verdi, Padova
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