Vicenza – Stimola non poche riflessioni – sul tema trattato e sul fare teatro – lo spettacolo intenso, bello, politico che la friulana Marta Cuscunà ha dedicato alla piccola “rivoluzione” dell’intelligenza compiuta da una pattuglia di Clarisse nel loro convento di Udine.
Sgombriamo il campo da ogni incertezza. La semplicità ingannata è un ottimo lavoro di una teatrante giovane e bravissima, capace di tenere sulla corda il pubblico (senza distinzione di età) raccontando con un ritmo incalzante una storia di cinquecento anni fa. Soprattutto Marta Cuscunà ha una straordinaria abilità nel far parlare le “pupazze” che l’accompagnano in scena, impersonando dal vivo il gruppo di monache del Santa Chiara di Udine che seppero trasformare un convento in una enclave di libero pensiero e di “Resistenza” all’oscurantismo della Controriforma. È letteralmente da manuale il processo davanti all’Inquisizione che l’attrice ricostruisce come una satira polifonica, giocando sui ruoli delle singole sorelle e tenendo il filo di un dialogo serrato a più voci che costringe lo spettatore a dimenticare che dietro le pupazze c’è un’abilissima ventriloqua.
Altrettanto riuscita l’asta iniziale delle giovani offerte al marito meno esoso, presentate da un banditore che di volta in volta incarna il carattere, i pregi e i difetti delle fanciulle di dote fornite, proposte come puledre al miglior partito. E quando partito proprio non c’è, l’unica destinazione è il convento.
Cuscunà attraversa con brio i turbamenti delle novizie friulane, condannate alla reclusione monastica fin da bambine per “inculcare liberamente” una vocazione predeterminata, inseguendole fino alla vestizione – quasi un funerale – e poi alla scelta “rivoluzionaria” di accogliere tra le mura del convento un libero pensiero al femminile, libri e conoscenza che distolgono dalla “semplicità” che le vuole donne zitte e obbedienti.
È proprio muovendo dalla qualità interpretativa di Marta Cuscunà che si dà l’occasione per una riflessione sul percorso di costruzione di uno spettacolo.
Il confronto tra narrazione e drammaturgia corre sottotraccia da vent’anni nella ricerca teatrale italiana. E spesso negli ultimi anni – complice il successo meritato di alcuni narratori da un capo all’altro della penisola – l’approccio didascalico allo sviluppo di storie per la scena ha prevalso sull’urgenza di una nuova drammaturgia.
Così, in carenza di drammaturghi pur nell’abbondanza di autori, complice pure una certa latitanza dei registi, gli interpreti della generazione emergente si trovano talvolta a mescolare e confondere i piani dello sviluppo drammaturgico.
Accade così che nell’articolazione del tema l’attrice-autrice friulana scelga di non rimanere aderente a un filo drammaturgico focalizzato sull’interpretazione, immergendo il confronto con lo spettatore nella carne viva della Storia e delle storie individuali, ma spesso stacchi e proceda in terza persona. L’interpretazione si fa dunque racconto e questo genera uno scarto, una cesura. La poetica dell’evento scenico lascia il passo alla parola.
Una scelta legittima, che non toglie efficacia al lavoro della Cuscunà, anche se forse spingendo un po’ sulla drammaturgia avrebbe potuto trovare una maggiore linearità emozionale.
Giambattista Marchetto
visto al Teatro Astra, Vicenza
L’ha ribloggato su Immagini Inscena.