Verona – Se c’è un appunto che si può muovere a Thierry Malandain è che i suoi lavori piacciono quasi sempre. Perché il movimento che disegna sui corpi dei ballerini del Malandain Ballet Biarritz è pulito ma non asettico, intelligente ma non intellettualistico, intenso ma non melodrammatico, armonico ma non banale. Solo talvolta il suo equilibrio à la Malandain diventa prevedibile, si avvicina a uno stilema: ben più che piacevole, pienamente capace di grazia, ma inevitabilmente limitato nello scarto geniale che lascia spiazzati.
Questo approccio emerge con evidenza nella rilettura che Malandain ha firmato di alcuni brani classici nel repertorio della danza, vista in scena al Teatro Romano di Verona come evento di chiusura dell’Estate Teatrale. Da La morte del cigno al Bolero, il coreografo francese ha costruito uno spettacolo di incantevole fattura, potendo contare su un corpo di ballo compatto e preparato – senza etóile di spicco, ma composto da ottimi danzatori e vocato all’azione corale. Una cifra qualitativa che il pubblico riconosce e applaude, tanto che è solo il repertorio a imporre un confronto con l’originale e con altre celebri (e geniali) riletture.
Ne La morte del cigno Malandain lavora per sottrazione, compie un’opera di astrazione concettuale che allontana il gesto dall’originale: le membra gemono di un’agonia rarefatta e anche la moltiplicazione del cigno (in tre performer) genera un superamento degli spasmi organici, sinuosi, intimi del cigno morente per lasciare spazio a un movimento icastico e sintetico sul tessuto sonoro di Saint-Saëns.
Sono invece drasticamente carnali la traslitterazione dell’assolo L’Après-midi d’un faune e la composizione onirica ma senza fronzoli de Lo spettro della rosa: il primo rivela una voluttuosa attenzione feticista e un eccitante gioco simbolico verso il climax, coerente con la tradizione, mentre il passo a due (frammentario e allusivo come possono essere i sogni) è ben più denso di seduzione rispetto all’originale.
Intensi e caldi i 15 minuti del Bolero, che Malandain e i suoi dodici ballerini interpretano come una sfida prima di tutto musicale. Nel crescendo del tema, il gesto supera la ripetitività per diventare quasi paradigma e icona di un universo corporeo iper-individuale. I corpi incarnano il suono, diventano unisono e il vigore dell’insieme supera le barriere che stringono lo spazio, quasi un impeto di liberazione.
Il finale è una conferma dell’estetica di Malandain. L’amore stregone, su musiche di Manuel De Falla, rimanda alle marcate provocazioni del flamenco che però il coreografo ammorbidisce in un seducente gioco d’insieme con sedici ballerini. La passione latina rimane intatta, l’incontro/scontro di amore e morte viene però sublimato in un volteggiare di veli, fazzoletti, braccia. E la dolcezza violenta della danza amorosa si moltiplica nell’azione corale.
GbM