03 maria-braunVenezia – Il presente è l’unica dimensione possibile per una felicità effimera e imperfetta. Ed è il tempo dell’infelicità fatta di speranze e di illusioni, nelle quali l’intelligenza trova la strada per dare corpo, parole, sorrisi, menzogne a quello che appare come unico esito sensato: sopravvivere.
Il matrimonio di Maria Braun portato in scena alla Biennale Teatro da Thomas Ostermeier ha l’amarezza di uno sguardo disincantato sulle magnifiche sorti e progressive di un modello vincente di storia nazionale – quello della Germania risorta dalle ceneri nel secondo dopoguerra – che si riverbera su un archetipo di successo personale (lavoro, denaro, amore). E la constatazione finale è che cruda e realista: non ci sono opzioni win-win nella vita, così come nella storia.
La peculiarità del lavoro del regista-voce della scena berlinese è un disincanto che affonda il bisturi rispetto al film di Rainer Werner Fassbinder, perché si avviluppa attorno al disincanto stesso. Se il film coglieva l’amarezza di uno sguardo feroce sui finti miti di potenza di un momento storico fatto di grandi tensioni e nette definizioni, ma forse anche di certezze da aggredire e delusioni da cavalcare, oggi la Maria Braun di Ostermeier non può stupire per cinismo o disincanto dato che la disillusione è la cifra dominante nella Storia e delle piccole storie che fanno la società meschina. Come dire che la Maria di Fassbinder poteva avere aspettative di reazione (forse di redenzione), mentre questa eroina incarnata sulla scena da una intensa e ironica Ursina Lardi ha la consapevolezza di non avere scelta, di stare in un mondo che non può cambiare e di cui deve accettare le cui atroci banalità.
L’amarezza quasi espressionista di Fassbinder lascia dunque il campo a un’ironia briosa che l’ottimo cast presentato in scena da Ostermeier restituisce con un’ottima pulizia nell’interpretazione. Così il dramma si trasforma (quasi) in commedia, il regista gioca con i ruoli e quello che poteva risultare drammatico si scioglie in un senso di normalità. Rimane sullo sfondo l’ironia di un destino complesso, che non viene subito ma giocato. E questa Maria Braun, prima ancora di essere una donna-manager dell’industria molto contemporanea, capace di cogliere le sfide e i rischi del dopoguerra, è una manager di se stessa tanto quanto l’amato consorte Hermann. I due potrebbero essere forse i protagonisti di una versione tedesca di House of Cards e anche il finale esplosivo, che rimanda al possibile suicidio di Maria, sembra ancora una volta un gioco più che un melodramma.

@gbmarchetto

visto al Teatro Goldoni di Venezia – Biennale Teatro 2015

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