Venezia – Raccogliere le energie per una battaglia fatale, destinata a lasciare sul campo solo corpi schiantati e deturpati dentro pozze di sangue, tra grumi di parole insanguinate che allagano l’anima. Perché la fine di un amore – quando avviene come esplosione e non con un sospiro – porta con sé un’estetica del massacro e un brutale disvelamento di meschinità banali, dolorose, inutili, pretestuose, incrostate di sovrastrutture.
È attorno a questo scontro che Pascal Rambert costruisce un ring, delimitato da pareti bianche come paradossi intimi e invisibili, e vi incastona quel gioiello drammaturgico che è Clôture de l’Amour. Lo spettacolo – nella versione italiana, prodotta da ERT – è approdato alla Biennale Teatro diretta da Àlex Rigola e ha generato un impatto potente sul pubblico che, come già al debutto assoluto di Avignon 2011, ha riservato applausi prolungati per i due protagonisti.
Se infatti la bellezza cruda del testo di Rambert ha la capacità di rapire e tenere in tensione lo spettatore fino all’ultima parola, a fare la differenza è l’ottima prestazione dei due interpreti anche nella versione italiana. Anna Della Rosa e Luca Lazzareschi spremono infatti dalla partitura drammaturgica ogni goccia di sangue e sudore, scavando senza risparmiarsi nelle viscere delle parole.
La fine dell’amore apre una prospettiva sull’abisso del non-detto, sulla crudeltà sincopata di parole iniettate di veleno, sulla brutalità dello sguardo che aggredisce i ricordi, il presente, i sogni comuni con il machete della disillusione. Non c’è spazio per il pentimento, non per il ripensamento. Non negli equilibrismi verbali del protagonista maschile, che sembra masturbare il proprio ego nella presunzione di autosufficienza, con una insolenza da bambino cattivo che arriva a calpestare ogni dolcezza passata, ogni bellezza svanita, ogni intimità perduta. Come un bambino cattivo, l’uomo salta sulla pozzanghera di sangue che cola dall’affresco di una vita in frantumi e ci si annega inebriato.
Non c’è spazio per un ripensamento nemmeno nella controffensiva della donna, dalla cui anima è stato sradicato l’afflato dell’amore e che si trova a riportare in luce una realtà concreta e carnale fatta di ossa, muscoli, merda e sinapsi. È lei che prende a badilate, con l’ironia feroce di una leonessa ferita, la meschinità del soliloquio maschile. Ma con lo stesso badile scava più a fondo la tomba di ogni comunione di pensieri, di corpi, di linguaggio.
Niente ritorno, niente redenzione. Quando il velo del linguaggio comune viene lacerato, il Mit-Welt di heideggeriana memoria si dissolve in una palude putrescente di rappresaglie, di disprezzo, di odio ferino.
L’amore è braccato, è sanguinante, è un rantolo sgraziato che esplode sporcando la dolcezza dei ricordi, la vicinanza dei corpi e il loro calore. L’uomo e la donna si lanciano parole e sguardi duri come arpioni, ma rimanendo inchiodati al proprio angolo del ring. Sono due monologhi privati di dialettica. Si sfidano senza mai un contatto, affondando l’arma nelle viscere di quanto hanno vissuto di più bello per strappare fuori le interiora.
Come in un’operazione a cuore aperto, si vedono i muscoli insanguinati e i brandelli di pelle. Eppure quei muscoli non funzionano più, non c’è più nulla da salvare se non i ricordi – sbattuti in una teca infrangibile come sfida alla banalità. E allora diventa vivisezione fine a se stessa.
È l’inferno ed è – sulla scena – di una bellezza terribile.
visto al Teatro alle Tese di Venezia, nel programma del 44. Festival Internazionale del Teatro