Praga CZ – Il nuovo direttore della Biennale Teatro Antonio Latella potrebbe farsi incuriosire e salire sul primo aereo per Praga, venire a conoscere la giovane compagnia ceca Tygr v tísni e assicurarsi un allestimento dedicato della loro Oresteia negli spazi dell’Arsenale. Ci permettiamo il suggerimento perché senza dubbio il contesto della Biennale e gli spazi – straordinariamente vivi e post industriali – a disposizione nel cuore di Venezia potrebbero attrarre il gruppo praghese nella sfida per un riallestimento di un’opera viscerale e corale, capace di una intensità che rende giustizia al testo di Eschilo, senza rinunciare a ripensarlo, rimasticarlo e a tratti forzarlo (con garbo) nell’intento di generare un impatto cruciale sul pubblico.
Lo spettacolo è stato allestito a Praga sull’isola di Štvanice ed è stato costruito attraverso quattro ‘stazioni’ in un percorso che va dalla riva della Vltava nel punto in cui sorge la novecentesca Vila Štvanice all’interno del ristorante dell’ex stadio del ghiaccio (abbattuto qualche anno fa) e attraverso un circuito per dirt-bikers per finire sulla facciata di quel che rimane dello stadio. È un crescendo di potenza visionaria imperniata sul semplice filtro del reale, modificato nel senso spaziale e metaforico da luci, gesti, corpi, suoni, ombre.
Oresteia porta in scena l’intera trilogia di Eschilo in poco più di due ore (senza far rimpiangere carenze) e affronta i nodi drammatici della tragedia senza pudori o timidezza. La composizione drammaturgica di Marie Nováková viene imbastita sulla scena con tocco magistrale da Ivo Kristián Kubák, ma con l’apporto fondamentale di Dragan Stojčevski per scene e costumi e di Ivan Archer per l’apparato musicale.
Agamennone si apre quasi senza un inizio, in un’atmosfera di pigra ‘normalità’ mediterranea. In una sorta di periferia trasandata, con uno slabbrato cartellone propagandistico a ricordare i tempi in cui il re annunciava un improbabile StadionArgon.eu, i notabili di Argo sono seduti al bar e il coro delle donne sembra concentrarsi su svaghi futili. La città si scuote quando dal palazzo reale (la villa) si affaccia Clitemnestra per annunciare la fine della guerra e la vittoria, preannunciata da fuochi d’artificio lontani.
Non c’è un proscenio chiuso, ma l’intero paesaggio è occupato dall’azione: il coro si muove tra il prato e il piccolo palco, la vedetta è su un pezzo di edificio sopraelevato (che lambisce una superstrada), la regina è nella villa, il messaggero che conferma la vittoria arriva dal fiume con una corsa da 200metrista. E finalmente Agamennone arriva dal fiume su un’autoblu con lampeggiante: veste una divisa da ammiraglio della Marina e con il suo comizio da dittatore novecentesco vittorioso riceve il plauso entusiasta del Coro di groupies (vestite sgargianti con maquillage vagamente espressionista). È la politica-spettacolo delle strette di mano ai notabili, al Coro e al pubblico, che vive il suo acme sul red carpet che Agamennone attraversa per entrare nella reggia/villa.
Tutto sembra tornare alla normalità, con i vecchi notabili che fumano al bar, ma sono proprio loro a interloquire con una Cassandra dall’aura fassbinderiana, stralunata nella sua possessione, guardata come preda barbarica del re e naturalmente inascoltata nel preannunciare il futuro insanguinato degli Argolidi.
Non c’è nemmeno il tempo di metabolizzare l’intenso monologo della veggente di Apollo che subito dal palazzo esce tronfia Clitemnestra con le braccia insanguinate e rovescia in faccia al Coro e al pubblico brandelli (finti) di carne. Il passaggio pulp non dura molto, perché la lucidità della regina è concentrata sulla costruzione di un nuovo ordine che sembra avere i connotati di uno stato di polizia, con Egisto a fare da molle cicisbeo della donna forte del regime impegnata in un’opera di “normalizzazione”.
Tutto questo – merita di essere rimarcato – non avviene nel chiuso di uno spazio scenico, ma nel cuore di una città con persone che passeggiano nel parco, auto che sfrecciano sulla vicina superstrada, luci e lampeggianti di ambulanze, sirene, barche sul fiume. E l’effetto è esattamente quello di amplificare la dimensione scenica ad un contesto urbano.
L’opera è tanto legata allo spazio della città, che l’inizio delle Coefore si trasforma in una processione funeraria guidata da Elettra e dal Coro (in divisa da security corps) che porta il pubblico a fiancheggiare la superstrada per entrare in quello che fu il ristorante dello stadio, trasformato nell’inquietante mausoleo ipogeo di Agamennone. Elettra celebra le libagioni per il padre e il coro intona lamenti contro la dittatura e la violenza, invocando un liberatore. Tutto cambia quando Oreste si presenta sulla tomba del padre Agamennone. È lui, il figlio maschio dei regnanti di Argo, che Apollo ha scelto per vendicare la ubris dì Clitemnestra e riportare la legittimità nella città. Al fratello bastano poche esortazioni di Elettra per far propria la missione e a quel punto la danza del Coro si trasforma in uno strip selvaggio per liberarsi dagli abiti da security e poi in un rave party.
L’invasamento si ferma con l’ingresso di Egisto, che Oreste uccide dopo una breve lotta. E l’acme drammatico si raggiunge con l’uccisione della madre Clitemnestra, che inutilmente cerca di smuovere la compassione filiale.
L’antro sepolcrale si trasforma allora in un incubo che invade Oreste, con le Erinni immediatamente scatenate dal matricidio. Un clangore di suoni e voci e ombre mette in fuga il vendicatore e finalmente le feroci persecutrici degli assassini di consanguinei si manifestano trasformate in sosia di Clitemnestra.
Eumenidi si apre in una dimensione ctonia, con le dee persecutrici immerse nel buio e nella polvere di un circuito sterrato per bici. Grida e gemiti si mescolano al crepitio di una fiamma ossidrica che illumina di scintille sinistre una montagnola di terra.
Oreste è rifugiato nel tempio di Atena, ma le vendicatrici fanno irruzione e lo minacciano, arrampicandosi sul grande fondale come ragni e sputando veleno.
L’impatto visivo è forte e assume toni quasi fantasy nella commistione tra scene e movimenti corali delle dee. Il colpo di teatro arriva con l’ingresso di Atena, in piedi su una jeep militare come un generale sul campo. La dea si offre di presiedere un tribunale che andrà a giudicare Oreste; le Erinni sostengono l’accusa, un Apollo supponente e smargiasso difende il matricida che – come è noto – viene assolto. Le dee della vendetta, infuriate, minacciano rappresaglia e distruzione, ma Atena le placa proponendo loro di trasfigurarsi in Eumenidi (dee positive della giustizia) di fatto abbandonando la propria dimensione ctonia.
Le celebrazioni finali diventano dunque un disco party con tutte le divinità che invocano il new deal di Atene.
visto a Praga (CZ) nell’ambito del progetto Anticka Štvanice (settembre 2016)